Foto di Luciano Di Bacco per Dagospia
1. LA VERSIONE DI MUGHINI
Lettera di Giampiero Mughini a Dagospia
Caro Dago, uno che si metta a leggere l’ultimissimo libro di Aldo Cazzullo (“L’intervista”, Mondadori) è come se si mettesse a navigare il Mar Mediterraneo che ci è talmente familiare su una canoa. Colpo di pagaia dopo colpo di pagaia, ossia pagina dopo pagina delle 400 di cui il libro è tessuto, gli scorrono innanzi agli occhi i porti, le sabbie, le città, le figure umane, i bastimenti carichi di idee che sono da mezzo secolo il paesaggio naturale in cui si sono mosse le nostre generazioni. Artisti, uomini politici, showmen, cantanti, calciatori simbolo, ci sono tutti in questa lunga “intervista”, in questo affollatissimo coro dove ciascuno ti racconta qualcosa, ti insegna qualcosa.
pierluigi battista marco follini
Ci sono Lucio Dalla, Gianni Rivera, Francesco Cossiga, Renzo Piano, Franca Valeri, Oscar Farinetti (“L’unico fuoriclasse della politica che conosco è Matteo Renzi”), Walter Veltroni, Sofia Viscardi. Quest’ultima una teen diciottenne che sul web ha un oceano di ammiratori. Una giornalista che ho incontrato su un set televisivo mi ha raccontato una volta che era andata in libreria dove la Viscardi firmava copie del suo libro, libro che lei voleva regalare alla figlia.
Le hanno dato un numeretto e le hanno detto di passare dopo 4-5 ore perché ce n’erano alcune centinaia prima di lei. Avevo scritto che purtroppo per me appartengo a una generazione che ritiene prezioso il primo libro in versi di Giuseppe Ungaretti, di cui nel 1916 vennero tirate 80 copie e vendute una decina o una ventina. Aldo, che è mio amico, comincia l’intervista con la Viscardi chiedendole che ne pensa, se paragonati al suo, dei libri in 80 copie di cui parlava un certo Mughini. La simpatica teen le ha risposto, com’era sacrosanto: “Chi è questo Mughini? Quanto a Ungaretti, non l’ho studiato”.
marcello sorgi annalisa bruchi aldo cazzullo
Intervistare mezzo mondo per scrivere sui giornali. Non è un’arte così facile: bisogna sapere ascoltare, bisogna sapere interrogare. Dio come invidio ad Aldo la sua agevolezza nell’affrontare ogni e qualsiasi tema, la sua onnipotenza giornalistica, il suo sapere incontrare Dino Zoff e dare al lettore l’impressione che per tutta la sua vita e sino a quel momento lui non abbia fatto altro che chiacchierare con dei portieri di calcio.
mara tanchis e chiara francini
Oltretutto non che sia facile pubblicare un’intervista su un giornale e poi trasferirla su un libro. Il fatto è che le parole hanno un tonfo diverso quando cadono su una pagina di giornale oppure sulla pagina di un libro. Un rumore o meglio una musica diversissimi. Talvolta è un tonfo che va bene in tutti e due i casi, talvolta no. Sapete qual è l’intervista che di tutte e 70 mi ha lasciato impietrito?
Quella al novantenne Enzo Bettiza, uno dei giornalisti più colti (e più feroci) di tutti i tempi. Di uno dei più famosi direttori di giornali italiani, il Giulio De Benedetti che dirigeva “La Stampa”, dice che era fisicamente piccolo, ignorante, e con tutto ciò un “grandissimo direttore”. Irriproducibile nel terzo millennio un personaggio come Bettiza, di cui Cazzullo dice che tiene a portata di mano “L’esilio”, uno dei grandi libri italiani moderni. I giornali, i libri.
Giampiero Mughini
2. L’INTERVISTA A PAOLO POLI
Tratta da ‘L’intervista: i 70 italiani che resteranno’, il libro di Aldo Cazzullo, edito da Mondadori
«Il bello degli amori omosessuali è la loro libertà e la loro riprovazione. Il matrimonio tra gay non mi interessa, come non mi interessa quello tra uomo e donna. Io voglio seguire l’istinto e la perversione, non tornare a casa e trovare qualcuno che mi chiede cosa voglio per cena. Fuggirei subito, con un principe o con un marinaio. Chi vuole l’unione civile e l’iscrizione al registro comunale non se ne intende. Io sì.»
guido dubaldo aldo cazzullo e delia dubaldo
Dice Paolo Poli di aver sempre votato comunista e aver passato la vita a travestirsi da prete e fare satira sulla Chiesa. «Ma ora, arrivato a ottant’anni, posso dirlo: la Chiesa è l’unica cosa seria che abbiamo in Italia. Sul piano estetico: alla Chiesa dobbiamo le meraviglie della pittura e l’incanto del gregoriano; duemila anni di prove generali della messa cantata. E soprattutto sul piano politico.
L’unico capo riconosciuto è il Papa. Il vero fondatore e per trent’anni il vero segretario della Dc è stato Montini. L’ultimo leader italiano di statura planetaria è stato Roncalli: con il Concilio cui ha invitato anglicani e ugonotti ha cambiato la storia del mondo, con Krusciov e Kennedy ha salvato la pace, e tra lo scaltro mugìco e il brillante bostoniano il più astuto era lui, il figlio di contadini di Bergamo; sapeva anche cogliere le gioie della vita, in un ristorante a Trieste ho visto la sua foto mentre gustava una palacinka, pareva una gallinona felice.
Oggi, poi, il miglior talento politico d’Italia è palesemente il cardinale Ruini. Molto meglio di D’Alema; anche se devo ammettere che D’Alema mi garba molto.» Politicamente? «Ma no. Fisicamente, è ovvio.» «Sono cresciuto in parrocchia, a Rifredi, periferia di Firenze. L’alternativa era fare il balilla: e, tra i fascisti e i preti, ho sempre preferito i preti. Conobbi don Milani, ho ancora una foto con lui.
Cantavo l’Agnus Dei, avevo una bella voce bianca; poi purtroppo sono cresciuto, mi si sono allungate le corde vocali, e l’ho persa. Amavo la musica sacra, gli organi, i ceri, e soprattutto i paramenti. Papa Ratzinger fa bene a recuperare certi bellissimi ornamenti rinascimentali e barocchi. Quanto al resto, il Papa deve essere cattivo.» La «cattiveria», per Poli, è un talento: sinonimo di serietà. «Cattivo era Visconti, un grandissimo. Il 1939 per me fu l’anno del conclave.
Mio padre carabiniere si era ammalato di tubercolosi, io vivevo con lui sul lago di Como, alla radio ascoltavamo le cronache dal Vaticano. Finalmente, fumata bianca: era Pacelli. Il Papa tedesco.» Quindi non le piaceva? «Ma che dice? Mi piaceva moltissimo. Grande presenza scenica, come si vede dalle immagini della sua visita alle macerie di San Lorenzo.
Quando arrivarono i tedeschi, quelli veri, mio padre partì con me e le mie sorellastre e passammo le linee per raggiungere gli americani, lasciando mamma con mia sorella Lucia, la più piccola. I tedeschi presero mia madre e la violentarono. Io ero sconvolto: “Cosa ti hanno fatto!”.
Lei tirò via: “Una doccia, ed è come non mi avessero fatto niente”. Donna forte.»
Perché dice «sorellastre»? Avevano un altro genitore? «No, sono sorelle a tutti gli effetti. Ma quando rivelai la mia omosessualità, non la accettarono. Ora non si parla d’altro; a quel tempo non era facile. Andavo a trovare Rosai e gli chiedevo: “Ma perché hai preso moglie?”. E lui: “È così piccina…”. Più tardi, dalle riviste che leggevano dal parrucchiere, le sorellastre scoprirono che avevo avuto successo, e si pentirono. Troppo tardi.» Lucia Poli è invece presente in casa del fratello con bellissime fotografie.
aldo cazzullo col cardinale camillo ruini
«Ha undici anni meno di me, è come fosse mia figlia. A Moravia mia sorella garbava molto. Quando si sentiva solo, la sera, telefonava per chiedere di lei. Rispondevo io e andavo a fargli compagnia. Passavamo ore sul terrazzo, a guardare le prostitute e i clienti: “Ma come fanno ad andare con uomini così brutti?” mi chiedeva Moravia.
“Tu Paolo quello lì lo vorresti?” Io lo facevo ridere. Quanto ho fatto l’oca giuliva, per i nostri grandi vecchi! Andavo da Fellini che mi preparava la piadina: per la nostra generazione il cibo è importante, anche Fellini aveva in testa la fame, la guerra. Nel ’44 non vedevi in giro un cane, un gatto, un piccione. Si era mangiato tutto.» «In fondo dobbiamo alla Chiesa anche Dante, che pure era antipapista. Se la Chiesa non avesse inventato il Purgatorio giusto qualche anno prima, non avremmo avuto la cantica più bella. Non amo l’Inferno: una scopiazzatura di Guinizzelli.
Preferisco il Paradiso: la poesia d’amore applicata al tomismo; e la donna amata personifica la religione. Io la religione non la detesto affatto. Dall’età di diciotto anni non ho più fede; credo però nell’uomo. Come il san Tommaso del Caravaggio di Potsdam, che allunga il dito e tocca. È una tela straordinaria: il volto di Gesù non si vede; la luce cade dall’alto, obliqua, come spesso in Caravaggio. A Palazzo Madama il cardinal Dal Monte l’aveva alloggiato nei sotterranei, mica al piano nobile. Ho imparato ad amarlo da Roberto Longhi, che però ne parlava dal 1912 e si era un po’ annoiato.
aldo cazzullo e pietrangelo buttafuoco
Con Longhi concordammo che Caravaggio non era omosessuale. A quell’epoca si era tutti un po’ misti, come Michelangelo. Leonardo invece no, lui era decisamente uno dei nostri.» 276 L’intervista «Amori con uomini importanti non ne ho mai avuti. Visconti mi ammoniva: “Ridi ridi, che prima o poi succede…”. Invece niente. Quanto a Pasolini, era lui a non volere me: gli stavo antipatico. Con Laura Betti, che allora si chiamava Trombetti, ho vissuto a casa di Zeffirelli, che mi accolse a Roma dopo la guerra: ma per me Franco era come una mamma, buona e generosa. Molto ospitale fu anche Mario Soldati. Un giorno incontra me e Laura per strada, affamati, e ci invita a pranzo. Solo che non ha niente per condire la pasta. Così ci prepara spaghetti al whisky.»
E i colleghi, gli uomini di teatro? «In Italia non abbiamo una grande letteratura teatrale. Tolti la Mandragola, Goldoni e Pirandello, il resto è da buttare. Poca cosa, in confronto a Molière, Shakespeare, Calderón, Lopez. Noi abbiamo Pulcinella, da cui discendono Carmelo Bene e Dario Fo: grande presenza scenica, come Wanda Osiris, anche se quando comincia con il gramelot non si capisce nulla.»
Eduardo? «Meglio il fratello, Peppino. Eduardo non mi è mai piaciuto. Antipatico. Testa da morto.» Gassman? «Un grande. Apriva le braccia e riempiva la scena.» Albertazzi? «Bravissimo in tv: leggeva guardando la telecamera. Ha una bella bocca che fa innamorare. Ma non mi piace che si vanti di essere stato a Salò.» Benigni? «Lo conosco poco. I giovani non li seguo. Paolo Rossi è bravo, ma non dovrebbe portarsi il fiasco e bere in scena.» Arnoldo Foà?
«Amoroso. Scrive commedie che Dio liberi; ma che voce! E quanto l’abbiamo ascoltata! Ha presente i vecchi film: “Mosè, libera il tuo popolo…”; è sempre lui, Foà. Con la forza misteriosa, biblica del popolo ebraico.» «Intendiamoci: noi ragazze non capiamo nulla di politica. Però non capisco neppure gli omosessuali che chiedono un riconoscimento ufficiale. Mi pare un atteggiamento conservatore. I Gay Pride mi mettono una tristezza infinita, come il Carnevale di Viareggio.
Meglio affidarsi all’istinto, come mi hanno insegnato Balzac e Tolstoj e come mi ha ripetuto Freud: il sesso non è tra le gambe, ma nel cervello, il giudizio morale non esiste, siamo tutti buoni e cattivi, casti e perversi. Questo bisogno di tenersi per mano come finocchie contente è roba da psicanalisti. A volte mi sveglio, avverto un richiamo antico, tasto il letto, sento che non c’è nessuno e penso: che sollievo. Avere al fianco uno che russa non significa non essere soli.»
«Negli anni Trenta l’educazione sessuale avveniva in famiglia. Io mettevo il ditino sotto la gonna delle mie sorellastre e loro toccavano me; la domenica mattina mi infilavo nel letto di papà. Ho capito fin da piccolo di essere gay. Mi garbava il fornaio. Poi sono andato al cinema, a vedere King Kong [King Kong], quello vero, e scoprii che mi garbava pure il gorilla. Non ho mai voluto un marito; un figlio però sì. Mi diedero in affido due fratellini, figli di una prostituta.
ennio morricone con la moglie maria travia
Avevo un cane, il pallone, il giardino, ma loro non sapevano che farsene, volevano tornare dai preti per giocare a calciobalilla. Ho provato con l’adozione. Sono stato esaminato da una giudichessa che però mi individuò subito come pessimo soggetto. “I figli hanno bisogno di una figura femminile.” Alle spalle della giudichessa c’era un calendario con l’immagine della Natività. Sorrisi: “La madre è rimasta incinta da vergine, il padre è putativo, famiglia più disastrata di quella non c’è”.
Mi cacciò in malo modo: “Lei non è atto all’infanzia”. Invece l’uomo, come il cavalluccio marino, è più portato della donna alla cura dei figli.» «Verso la metà degli anni Sessanta a Roma scioglievano l’Opera maternità e infanzia. Ci sono andato, insieme con una dama benefica che aveva portato le caramelle. C’erano stanze piene di bambini che a quattro anni camminavano a stento e dicevano solo “cacca” e “cioccolato”.
Una suora di quelle pietose mi disse: “Ne prenda due e scappi”. Io sognavo una bambina bionda e buona e una bruna e cattiva, come nelle fiabe, ma non feci in tempo a scegliere, in due mi saltarono al collo e mi chiamarono “mamma”. “Ottimo inizio” pensai, e feci per guadagnare l’uscita. Mi fermò un infermiere, un sindacalista, che me le fece posare: meglio figlie dello Stato che di una ragazza irrecuperabile come me.»
pippo baudo saluta aldo cazzullo walter veltroni stefano folli sabrina florio pippo baudo