Video di Veronica Del Soldà per Dagospia
L' ultimo saluto a Mario D'Urso
Foto di Luciano Di Bacco per Dagospia
Giuliano Ferrrara per "Il Foglio"
Pensarlo morto fa quasi ridere. E’ scherzosa surrealtà. Non aveva proprio alcun commercio con la notte atra del destino, quell’uomo solare e impavido chiccone di nome Mario D’Urso. Solo la nazione napoletana, solo l’erta di Montedidio che domina il dominabile dalle altezze dei Serra di Cassano, parenti eleganti, poteva produrre un italiano stranoto e impudico, mondano e festaiolo, ma anche talvolta nascosto in certe dolcezze di tratto, in certe vulnerabilità malinconiche non difficili a riconoscersi nello stile e nell’amicizia.
Fu Re dei memorabilia, protagonista di una gallery in bianco e nero delle più squisite, principe della conversazione e gastronomo padrone di casa impeccabile, mediatore allegro e infaticabile lungo il parallelo unico che collega Napoli e New York, stessa latitudine fatale. Passando per Roma, per Torino, per Londra: case reali, vere e presunte, Camelot a strafottere, lobby culturali, amiche e amici pieni di glamour, attici vivaci con vista su Central Park e pranzi, pranzetti, occasioni, giro dei giri, una vita stupenda che non poteva interrompersi per nessuna ragione al mondo, nemmeno per un minuto.
Si sarà distratto un momento, nella sua casa con i banani e i cani e i vari lasciti di babbo D’Urso dalle parti della Salaria, avrà tralasciato di scrivere nel carnet gli impegni del giorno dopo, o avrà sbagliato la data, e se ne è andato per via di un cancro che non lo riguardava affatto, proditorio e molesto, meschino e finale.
E ora lasciamo stare Agnelli e la Regina Madre, i cocktail e Audrey Hepburn e la principessa Margaret (un amore? ne sorrideva con empito giulivo), la vecchia e cara sorella di Jack Kennedy e i topi operosi della Review of Books, il mondo liberal dei finanzieri e dei giocherelloni, Lauren Bacall nel suo Dakota, Sidney Lumet e cento altri amici, o mille, o diecimila, lasciamoli stare.
Sapeva essere sottile come una carognetta, e come avrebbe mai potuto evitarlo con la vita che faceva Dio solo lo sa, e denso e dolce come il miele. In particolare affettuoso e pur anche sdolcinato comme il faut con le amicizie e i legami apparentemente dedicati al tempo effimero dei loisirs, ma nutriti di curiosità politica e ideologica: una lunga stagione con Fausto e Lella Bertinotti, e il rigoroso compagnonnage con Donatella Zegna e Lamberto Dini, mandatari qualche tempo fa nella stagione dell’Ulivo di un seggio al Senato conquistato tra il popolo campano, per il popolo dei quartieri, e naturalmente contro il popolo dei sogni rivoltosi e babbei.
gianni letta fausto bertinotti ricorda mario d urso (2)
Lo ricordo che ci saluta in Piazza Farnese mentre sguscia a palazzo, il pomeriggio di una qualche affollata parata di onorificenze di cui era maestro, all’Ambasciata francese, mentre noi si comiziava contro il presidente Sarkozy inteso come De Funès, perché aveva irriso il capo del governo al fianco di Frau Merkel: due eventi in contemporanea nella Roma plebea e snob della Légion d’Honneur e della Legione straniera che rappresentavamo, quel pomeriggio, così bene, con i camerieri e i funzionari del governo républicain affacciati alle finestre a guardare les italiens de Berlusconi en colère. Tonanti straccioni di Valmy assatanati contro la facciata michelangiolesca del Palais Farnese, noi; e Mario perfetto Maestro di cerimonia, e di tutti amico, tra i suoi pari asserragliati nelle sale con l’Ambassadeur.
Gli si voleva bene per forza, una specie di vocazione civile all’abbraccio. Buttafuoco, quando passava di comizio in comizio nella circoscrizione vesuviana, prima di fare una capatina a Capri, lo canzonava alla Totò: bellezza mia, bellezza mia.
Ma nessuno ha mai potuto esercitare la tecnica triste della condiscendenza con quel bel tomo di società, protagonista di feste d’epoca alla Truman Capote, che aspetta il suo George Plimpton per essere cantato a dovere, con la tenuità del caso, visto che combinava la sua vita come combinava la vita degli altri, cioè senza prendersi mai sul serioso, aristocratico in modo quasi patologico com’era. Avevo sperato di potergli dedicare il suo stesso racconto di sé nel Foglio, ma poi tutto finì in nulla perché aveva troppi appuntamenti già segnati, fino a quel gesto sovrano di sbadataggine, fino a quella data di giugno nella quale era il primo a non credere.
fausto bertinotti ricorda mario d urso