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Foto di Mezzelani-Gmt
Giancarlo Dotto (Rabdo Man) per Dagospia
L’aggettivo “epocale” si spende facile. Come il ventino al lavavetri. Fa sentire bene chi lo dice e gratifica chi lo subisce. Parola inflazionata, non si nega a niente e a nessuno un “epocale”. Eviterei “storica”, un tantino pomposa. Chiamiamola allora “impressionante”. La vittoria della Roma contro il gibboso esercito di Chiellini e compagni fa impressione. In alternativa, “sensazionale”, per l’enormità delle sensazioni che ha scatenato in uno sputo di tempo, novanta minuti.
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Il fatto. Da vent’anni in qua, è la prima volta che l’As Roma gioca e si mette in gioco, per di più contro i “nemici” da manuale, senza la sua scimmia divina sulle spalle. Francesco Totti. Per “scimmia” intendo, of course, lo dico per i digiuni di lessico da dipendenza, quel destino incombente che ti sta addosso e, da un lato, ti fa onnipotente, dall’altro ti debilita e ti svuota.
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Francesco Totti, il più grande calciatore della storia romanista, per me il più grande in assoluto, è stato per vent’anni la meravigliosa droga giallorossa. Una dipendenza assoluta, se l’amore è dipendenza, un paradiso per nulla artificiale quando il calcio è paradiso. In molti casi e negli anni più bui, i tifosi sono stati più tottisti che romanisti. Una forma di insidiosa idolatria. Il vitello d’oro ha sostituito Dio. “Il capitano”. Non va bene. La religione del tifoso non può che essere quella della maglia e dei colori. L’eroe mitologico esalta la maglia, non la sopravanza. L’impazzimento prescinde da chi la abita.
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E’ stato bello vederlo esultare ieri dall’angolo più remoto della panca. Il Capitano che accetta serenamente di non essere più al centro della Roma è il più grande regalo che lui possa fare alla sua squadra e a se stesso, alla propria storia. Negli ultimi anni, non Francesco Totti, ma il suo nome, l’idolo, il significante, direbbero i linguisti, era diventato un’enorme prigione per la Roma. Per la squadra, mai libera di immaginarsi senza il suo dio, anche quando la ruggine del tempo lo ha fatto troppo umano.
Per i compagni vecchi e nuovi, condannati al tributo permanente, a cercarlo in campo e a omaggiarlo fuori (è davvero un caso che il leggiadro Pjanic scopra il piacere di sentirsi tale quando il nome di Totti non lo relega a ombra?). Per i dirigenti. E per gli allenatori. Torturati e spesso evirati dal non poter sentirsi liberi di scegliere (bravissimo Rudi Garcia a pilotare con garbo, intelligenza e tutti i piccoli inciampi del caso la “detottizzazione”).
Per la stampa. Pigramente sdraiata nella celebrazione a oltranza. Per i tifosi stessi. Viralmente e qualche volta vilmente costretti a rifugiarsi nel nome di Totti per sprezzare tutto il resto e dividere drasticamente il mondo giallorosso nel dualismo più becero, il Bene e il Male. Se il Totti calciatore è stato la meraviglia permanente della Roma, il suo nome rischiava di diventarne la decadenza.
Separarsi da Totti, non è facile per nessuno. A cominciare da Francesco stesso. Il lutto in certi casi precede l’evento. Succede con i fenomeni idolatrati. Vedi il caso di Roger Federer, costretto come Totti a rilanciare se stesso all’infinito, per non gettare il mondo nell’angoscia del suo non esserci più.
Da ieri, sarà più facile e più dolce andare incontro a quel destino che nessuno può scansare. Bisogna abbandonare le cose che ci abbandonano. Vale per tutti e vale per Totti. Farlo con una squadra così, dove i profili mitologici si sprecano, già forti o affioranti, a cominciare dai due bosniaci, il vecchio e il nuovo, questo magnifico biondo là davanti, leader totale per vocazione, l’egiziano danzante, lo spagnolo crossante, il portiere svettante e ora anche il francesino arguto di testa e di piede.
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E quelli storici, De Rossi su tutti, la maglia come pelle, l’inverosimile Nainggo, unico al mondo nel suo genere, il greco, il maliano e l’ivoriano. Guerrieri all’erta come Castan, De Sanctis e Iturbe. La Roma ideale per fondere e confondere a breve in un’unica stratosfera emotiva la festa e il funerale.
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