Carla Piro Mander per torino.corriere.it
La stagione del Regio di Torino del 1856 è stata deludente. I giornali quell’anno hanno scritto «Coraggio, con questo fango si fa l’Italia» (historiaregni.it) ma il morale dei piemontesi, alleati con la Francia nella guerra di Crimea contro la Russia, è basso. La moglie del coreografo triestino Domenico Ronzani, ballerina, preoccupata come il marito per la situazione economica, è andata a chiedere aiuto e sussidi al Ministero delle Finanze, dal quale il teatro dipende. È così che il Conte Camillo Benso di Cavour, ministro delle finanze e primo ministro del Regno incontra Bianca Ronzani. Bianca è ungherese, figlia — scrive Lucio Villari — di Valentino Sevierzy. «Capelli nerissimi, naso greco, denti piccoli e bianchi». Ha ventotto anni che sembrano venti.
(...)Alla notizia che a Vienna sono in vendita 24 lettere d’amore, Costantino Nigra parla col re e lo convince che vadano distrutte. Sono affollate di dettagli, ribadisce Nigra stesso nel 1894, «scritte con imprevidente abbandono, piene di particolari del carattere più intimo […] farebbero torto alla memoria dello statista». Nigra le rintraccia, paga il collezionista, poi le brucia. I particolari non tolgono niente ai contorni, anzi. Quel che resta basta.
Bianca e Camillo non c’entrano niente l’uno con l’altro. Lei è la disinvolta compagna di un chiacchierato impresario. Lui è l’uomo che sul palcoscenico europeo del Risorgimento sta unificando l’Italia. Un ministro e una ballerina. Il più trito dei feuilleton, veri o presunti. Se non fosse che tra Bianca e Camillo è amore davvero. «Mia cara amica» — le scrive nel gennaio del 57 — «Con gioia penso che domani lasceremo Nizza per riavvicinarmi a te.
La tua assenza mi pesa più di quanto possa dirti. Cerco in tutto il mondo una figura che possa ricordarmi la Bianca: non trovo da nessuna parte nulla che le si avvicini. Né le bionde Inglesi, né le Russe dallo sguardo deciso, né le piccanti Francesi, né le donne di qui con le loro pose languide possono […]la millesima parte dell’emozione che provo guardandoti. Con quanto ardore quindi auspico il momento in cui potrò stringerti tra le braccia.]…] Spero che non lascerai Torino proprio quando arriverò io. […]Scrivo nel mezzo dell’udienza.; non so bene cosa sto scrivendo ma so che ti amo teneramente. Il tuo amico C.C ».
Le comprò una villa
Quando il marito di Bianca scappa in America inseguito dai creditori, Cavour le compra una villa sulla collina torinese e il legame, se non ufficiale, si fa scoperto. «Mon Minetto», scrive Bianca a Domenico, nel maggio 56, «due mesi sono passati dal tuo imbarco per l’America e ancora nessuna notizia nonostante le promesse». Poi lo informa che passerà una villeggiatura in una «località in mezzo ai monti», forse Aix, dove ogni anno trascorre l’estate e dove la raggiungono le lettere del Conte.
«Cara Bianca» — è il 13 agosto del 57 — «ti ringrazio del grazioso ritratto che mi hai mandato. Hai voluto procurarmi un piccolo compenso al dispiacere ch’io provo dal non potere da tanto tempo abbracciare l’originale.]…]Quantunque ti desideri molto non vorrei abbreviare il tuo soggiorno in Aix».
«Nessuna come Bianca»
La storia non ci ha portato gli scritti di Bianca Ronzani, forse tra quelli bruciati da Nigra. Ma le date dei testi rimasti dicono di un lungo legame.
Nel 1859, a dicembre: «cara Bianca, non ti ho scritto perché è troppa la rabbia che mi rode]…]quei minchioni di ministri da otto giorni mi scrivono di avere pazienza ancora un poco […]perderò la pazienza e tornerò da te che amo più delli onori e del potere». Quella per Bianca è l’ultima passione, violenta e inattesa. Nel febbraio del 1860, da Milano: «cara Bianca, il nostro viaggio fu felice. Nelle strade il re fu salutato con applausi ed evviva]…]Le signore erano molto eleganti. ma bellezze poche e nessuna poi che gareggiar potesse con la Bianca […]Ti abbraccio, ti perdono di avermi fatto arrabbiare domenica per la tua amabilità di martedì» (Amami e credimi, Archinto).
Manca poco alla fine.
L’uomo che sta cambiando la storia italiana con Mazzini e Garibaldi ha poco tempo davanti a sé. Morirà nel 1861, a giugno e la sua morte sarà oggetto di pettegolezzo in cronaca. E tra le pieghe del patrimonio di pagine custodite tra Archivio di Stato, Fondazione Camillo Cavour, Centri di Studio e biblioteche che raccontano il capolavoro risorgimentale dell’unificazione e il «libera Chiesa in libero Stato» che gli costò l’anatema, trovano posto 56 lettere che riflettono il profilo di un uomo irrequieto e carismatico.
Lo stesso uomo che, molti anni prima, nel 1830, ventenne impegnato nel servizio militare, aveva intrecciato un intenso rapporto con Nina Schiaffino, moglie ventitreenne del marchese Stefano Giustiniani.
«Tu dici che sono stata creata per te» — gli scrive Nina — «ma tu basti alla mia felicità, mentre io non posso rendere completa la tua. Mi vedi perfetta, mi trovi qualità ch’io non posseggo. Se l’illusione svanisce, se il tempo, nemico mio più che tuo, raffredda i tuoi sentimenti per me, ti occorreranno altri oggetti da amare. L’inquietudine del tuo cuore non si calmerà facilmente […]
Nina, senza essere del tutto bandita dai tuoi affetti, non sarà più la diletta». Per amore di Camillo Nina ha voltato le spalle alla famiglia e alle convenzioni del suo tempo. Dirà il marito, appreso dei pettegolezzi: «Quella per Cavour? È solo una passione. La verità è che Nina non è in possesso delle sue facoltà mentali» ( Giorgi, agi.it.cultura).
Nina non è pazza, anche se la sua ossessione è divorante. Ma il Conte si sta facendo più freddo. «Io non so nulla tranne d’amarti tanto. Tu sei tutto per me» — lei gli scrive — «Sei un essere soprannaturale. Tu assorbi tutti i miei pensieri».
Ma l’amore che strappa i capelli è perduto. Nella notte del 23 aprile 1841 Nina scrive «La donna che ti amava è morta, non era bella, aveva sofferto troppo» (Giustiniani.it). […] «È morta, dico, e in questo dominio della morte ha incontrato antiche rivali. Se essa ha ceduto loro la palma della bellezza nel mondo ove i sensi vogliono essere sedotti, qui ella le supera tutte: nessuna ti ha amato come lei. Nessuna!». Poi taglia una ciocca di capelli, la infila nella busta insieme allo scritto e si butta nel vuoto da una finestra del palazzo Lercari Parodi.
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