Giancarlo Dotto (Rabdoman) per Dagospia
robrto d agostino con vittorio sgarbi
L’ultima volta l’ho lasciato che fissava da più di mezz’ora una tela alla parete, immobile come una lucertola, completamente dimentico della decina di persone che aveva appena trascinato a casa sua nel cuore della notte. Stava cercando la simmetria perfetta degli angoli. Non era più tra noi.
giancarlo dotto e giorgia surina
Vittorio Sgarbi è uno degli umani più interessanti e originali in circolazione oggi nel pianeta. L’averlo sotto gli occhi dovunque, comunque, in diretta o differita, reale o virtuale non fa differenza, ci dà la fuorviante sensazione della familiarità. Eccentrico, intelligente, esagerato, forse pazzo, ma uno di noi. Non è così. Sgarbi non è spiegabile. Un po’ come la fisica quantistica. Puoi intercettarla, provarla, restarne stregato, tradurla in un’equazione, ma non puoi spiegarla, se non rinunciando a capirla.
Nell’istante in cui stiamo scrivendo, mezzanotte quasi, Sgarbi potrebbe essere ovunque, che sorvola i cieli della Libia o si diffonde incontenibile nel più becero pollaio televisivo, a cercare solo lui sa cosa nello scantinato di un palazzo rinascimentale a Todi o nell’atto di penetrare in un museo romano seguito da codazzi di gente trafelata, piuttosto che in contemplazione solitaria di un altare votivo a Tolentino.
Potrebbe essere al cellulare che sta trattando il prestito di un Piero della Francesca, organizzando una mostra del Tintoretto o convocando una vergine scontrosa, vera o dipinta, purché bella. O magari è in casa che sta facendo sesso o qualunque altra cosa sotto lo sguardo compassionevole della Maddalena di Guido Reni in camera da letto.
Sfinito ma infinito, alla presentazione del suo ultimo libro, braccato da centinaia di assatanate che gli stanno addosso, lo premono, lo baciano, si fanno fotografare e dedicare. Signore bene, massaie, madri e figlie di ogni età, studentesse con la scusa dell’arte e professoresse con la scusa delle studentesse. Potrebbe essere ovunque. L’ebbrezza maniaca addosso dei monaci erranti. A passo di carica, anche quando si fa fotografare nudo sul divano di casa. Invisibile per eccesso di visibilità. Come il fazzoletto fedifrago di Desdemona e la lettera rubata di Poe. Non può fermarsi, Sgarbi. Se si ferma è perduto.
Un forsennato. Nel senso del fuori di senno ma anche del forse mai nato. Ne ho conosciuto un altro del genere. Dello stesso degenere. Carmelo Bene. Un altro geniale malato di nervi. Puoi raccontarli ma non spiegarli. Un abile cecchino ha piantato una pallottola al centro della loro sagoma, tra cuore e testa. Un buco d’essere. Che sanguina a tempo pieno. Non cicatrizzabile.
Una fottuta nostalgia che li fa frenetici e smisurati, a correre dietro donne e madonne, a moltiplicarle, nella direzione del suono o quella dell’immagine, là dove il suono lo vedi e l’immagine suona. Uno scacco permanente. L’arte è il velo che copre la mancanza, l’orrore che si fa estasi.
Lo choc visivo del Carmelo bambino che solleva morboso la veste della Madonna in una chiesa salentina e scopre un traliccio di legno, quello di Vittorio ragazzo la prima volta che s’imbatte in Ilaria del Carretto dormiente nella cattedrale di San Martino a Lucca. “…riconobbi come la bellezza potesse abitare in un’immagine, calarsi nel marmo e scaldarlo più che fosse carne”. Le loro prime donne alias primedonne, una Madonna di legno e una donna di marmo.
Tornando allo stupefacente Sgarbi. Sarebbe, forse, in parte spiegabile se fosse un cocainomane. Ma, uno non lo è, due non basterebbe affatto a spiegarlo. Essere Vittorio Sgarbi eccede la coca. E’ chimica naturale, non da laboratorio. Non lo potrebbe alimentare nemmeno un Pablo Escobar dei tempi d’oro. L’alcaloide di Sgarbi è tutto nella sua mente orgiastica.
anna cerofolini vittorio sgarbi
I suoi nervi malati per eccesso di combustione. L’orgia è il suo stato permanente. Con se stesso e l’insieme dei suoi atomi. La fusione dei corpi per guadagnare la dispersione del corpo. Il paradiso originale della dismisura. Quando eravamo onda, prima di andare in onda. E il cecchino dal mirino polifemico non ci aveva ancora individuato e bucato.
La dannazione di Vittorio è quella della misura. Il suo non poter stare dentro il perimetro che lo ospita. Chiunque ci provi a mettersi nei panni di Sgarbi, lui compreso se avesse voglia e tempo di farlo, scappa il più lontano possibile.
Spaventato non da quello che vede, ma da quanto non riesce a capire. Se non scappi, resti lì, muto, ammaliato, a farti travolgere, come davanti a un film di Terrence Malick. Solo che i film di Malick prima o poi finiscono. Lui no.
Intellettuali pensosi e penosi ci provano da sempre ad arginarlo, alias esorcizzarlo, chiudendolo e facendolo rotolare nella botte di chiodi di spiegazioni il più delle volte sprezzanti. E’ il loro modo di metterci una pezza. Arrangiare un pensierino decente per sentirsi rassicurati, là dove si avvertono surclassati. “Mente brillante vero, grande ingegno certo, intelligente, ma che peccato questo suo buttarsi via, questo suo sprecarsi e svendersi…E pensare che sarebbe stato un grande critico d’arte…”, uno dei refrain più gettonati.
massimo sestini sgarbi in sauna
Pensi così d’averlo liquidato, Sgarbi, una volta per tutte, ma il fatto è che lui se ne fotte. Non è certo questo che lo arresta. Si dice che il mondano sia la sua perdizione. Che la televisione sia il punto debole della la sua deprecabile vanità, quando è, in realtà, la coltivata palestra del suo farsi fuori, non fosse altro che urlando all’infinito la parola capra, annientare se stesso, con la scusa di annientare il prossimo, di cui non gliene frega nulla.
Una parata di manichini intercambiabili con cui fare sesso orale per un paio d’ore. Strafare, straparlare, smodare, pur di non farsi misurare e dunque pietrificare. La televisione è per Sgarbi un’irresistibile tentazione, una comoda e ben remunerata scorciatoia per praticare il suo rito orgiastico in assoluta solitudine.
sgarbi oltre il limite normanno
Lui è come lo Spittelau, l’inceneritore capolavoro di Vienna in pieno centro, un tripudio di colori e smalti, finestre dipinte, sfere e mosaici. Hanno molto in comune. Sono due attrazioni, bruciano tonnellate di materia e le trasformano in energia. Se Sgarbi, come lo Spittelau, avesse un oblò sul suo di dentro, ne vedremmo delle belle.
Un’immensa fornace, dove bruciano architetture verbali invece che rifiuti urbani, i flussi imperiosi della sua fervida mente piuttosto che i pannoloni lerci dei culi viennesi. Lo schermo televisivo è il suo oblò. Più sono lì a guardarlo, più lui esagera, brucia, divampa. Come lo Spittelau, Sgarbi deve smaltire ogni santo giorno le tonnellate di materiale incandescente che la sua mente produce, ventiquattro ore su ventiquattro, 365 giorni l’anno.
Il suo sistema nervoso è sempre in bilico, al limite della costipazione e dunque del collasso. Non ha alternativa. Si libera o scoppia. Non riuscisse a scaricare, il suo corpo si riempirebbe di ustioni. I suoi migliori amici sono quelli che si prestano a scortare il falò eternamente acceso. Ne lascia a decine sull’asfalto. Esausti. Arresi.
Mettere a fuoco Sgarbi equivale a essere messi a fuoco.
L’azione e la contemplazione sono i due estremi che si toccano del suo stare al mondo. I due modi opposti e uguali per sottrarsi al cannibalismo dell’occhio che ti misura e ti fagocita. La vita come happening permanente, fino all’ultimo respiro. Vittorio Sgarbi come Jean Paul Belmondo. Due uomini in fuga, dove l’essere uccisi da un proiettile in pieno centro o da un infarto al casello non fa differenza. Un incidente sul lavoro, basta ignorarlo. Perché tu non sei mai lì dove muori, ma sempre altrove, nel mai nato, nel forsennato.
VITTORIO SGARBI E LA VECCHIA FOTO CON BEPPE GRILLO
Se l’Orlando furioso corre dietro la sua Angelica, il Vittorio furioso corre dietro il volto di una Madonna, l’infinita eloquenza delle cose mute, tele o pietra, e non importa se, per arrivare a questo, deve attraversare migliaia di corpi di donna. Vittorio tratta le donne inanimate come fossero vere e quelle vere come fossero inanimate. Da frequentare con dedizione le prime, imperfette e intercambiabili le seconde, nella duplice euforia da sovrapposizione e accumulazione. Sgarbi ha nel suo Smartphone un numero da chiamare e una donna da convocare in ogni angolo dello stivale.
A differenza delle Madonne dipinte o scolpite, le belle donne non resistono al tempo, si decompongono. Sgarbi perdona la fidanzata russa che gli spalma la gomma masticata sui genitali, ma non perdona l’assenza di bellezza. Donna inguardabile, donna imperdonabile. Sabrina Colle è la sua dea terrena, da sempre, la sua donna Madonna.
VITTORIO SGARBI CON LA FIGLIA ALBA
Lo sguardo di Sgarbi la mette al riparo dalle ingiurie del tempo. La protegge. Samurai e predone allo stesso tempo, viaggiatore sensazionale più che sentimentale. Il movimento è la sua alchimia per trasformare il metallo in oro e l’oro in cenere. Il mondo di Sgarbi è il palazzo di Atlante, è il carcere infinito di Pessoa, il labirinto del fuori di sé. Suonate pure alla porta. Sgarbi non è mai in casa, nemmeno quando sta in casa.