Roberta Scorranese per corriere.it - Estratti
Devo chiamarla Red o Bruno?
«Red. Mia moglie Bea mi chiama così anche nei momenti di maggiore intimità».
Già, perché non tutti conoscono Bruno Canzian, ma di certo tutti sanno chi è il bellissimo ragazzo nato a Quinto di Treviso nel 1951, capelli lunghi e voce dolce: per il mondo intero lui è Red Canzian, storico bassista dei Pooh.
Nel libro «Centoparole per raccontare una vita» lei sceglie di cominciare con «Abbraccio». La sua delicatezza d’animo, quindi, non è una leggenda, lei è davvero il più tenero della band?
«Ricordo il primo abbraccio di Bea (Beatrice Niederwieser, ndr). Ci siamo incontrati per caso a Corvara trent’anni fa, lei era sposata e aspettava Phil, io stavo con la mia prima moglie Delia e avevamo la nostra Chiara. Quando la proprietaria dell’albergo mi vide, corse a chiamarla: “Guarda Bea, c’è quello dei Pooh”, le disse. E la donna che sarebbe diventata poi la mia fidanzata, senza fare una piega, disse: “Chi sono i Pooh?”. In pratica, l’unica italiana che non ci conosceva».
E lei come ha reagito?
«Me ne sono innamorato! Ma ci sono voluti dieci anni di corteggiamento. L’ho aspettata e così oggi Phil è anche figlio mio, così come Chiara, nata dal mio precedente matrimonio, è figlia sua».
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È vero che lei è diventato uno dei bassisti più famosi pur non sapendo inizialmente suonare il basso?
«Ero un chitarrista, ma alla band serviva un bassista e così... La cosa divertente è che in casa avevo una enorme quantità di strumenti, la batteria, l’organo Hammond, perfino il sax, ma non il basso. Ho imparato. Ci ho messo tempo e testa e sono riuscito a diventare un innovatore dello strumento: nel 1978, per la prima volta in un disco pop, inserii il basso senza tasti».
Come nasce una musica?
«L’aquila e il falco è nata così, di getto, in tre minuti. Già col giubbotto addosso per uscire, seduto sul bracciolo del divano, mentre Bea si preparava».
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Ma i Pooh non hanno mai fatto politica.
«Vero, e per questo la critica ci ha massacrato per anni».
Però nel 1976 vi presentaste con «Pierre», brano che parlava di omofobia.
«Sì, ma era un singolo e nell’altro lato c’era Linda, una storia d’amore. Il punto è che non siamo stati capiti a sufficienza, continuano a dire che siamo quelli dell’amore e delle lacrime, ma io so quanto lavoro c’è stato e c’è dietro quello che facciamo. In Italia si diventa santi solo dopo morti: me lo ricordo quando nel 2012 a Sanremo Lucio Dalla si presentò come direttore d’orchestra per accompagnare Pierdavide Carone. Nessuno se lo filò. Poi dopo due settimane Lucio morì e da allora è partita la beatificazione».
Nel 1990 avete vinto Sanremo con «Uomini soli».
«Che la casa discografica non voleva portare, perché la considerava triste. Voleva che andassimo con un altro brano Donne italiane, più orecchiabile. Sa che cosa facemmo? Qualche settimana prima cantammo questa canzone in tv e la “bruciammo”, così i discografici furono costretti ad accettare Uomini soli, che poi vinse».
E se le dico «bonsai»?
«Fine anni Ottanta, in autogrill, compro un libro sui bonsai. Me ne innamoro, comincio a studiarli, frequento il vivaio Crespi a Parabiago, vado in Giappone a studiare questa arte con i maestri Saburo Kato e Masahiko Kimura. Tornato in Italia fondo addirittura un’azienda agricola per la coltivazione di piante da trasformare in bonsai».
(...)
«C» come cuore.
«Il mio si fermò nel 2015, ma oggi posso dire di aver beffato la morte tre volte».
Cominciamo dal 2015.
«Sentii una bomba nel petto, dissezione dell’aorta. Il 40% muore prima di arrivare in ospedale, io fui fortunato perché mentre mi portavano in sala operatoria il professor De Paulis stava per prendere un aereo. Tornò indietro e mi impiantò una protesi da lui brevettata. La cosa incredibile è che 53 giorni dopo ero sul palco di Bolzano per un concerto, anche se dietro le quinte c’era un esercito di medici e familiari con flaconi, flebo... armamentario salvavita».
Tre anni dopo, nel 2018, una macchia nel polmone.
«Tumore maligno, mi asportarono un pezzo di polmone, ma un mese dopo partiva una mia tournée, ho fatto le prove con le flebo».
Infine, nel 2022, infezione da stafilococco aureo.
«Ho smesso con gli antibiotici solo nel giugno scorso, due anni di cure. Ma sapesse quante tournée ho fatto con la schiena a pezzi: tra una pausa e l’altra, dietro le quinte, mi iniettavano l’antidolorifico».
Ma lei è Chuck Norris!
«E questo è niente. Con la prima barca, un motoscafo open e molto piccolo, ho attraversato, da completo incosciente, l’Adriatico da Jesolo a Rovigno, in Croazia, con il solo aiuto di una bussola e di una carta nautica».
I credenti direbbero che lei ha vissuto più di un miracolo.
«Allora le racconto questa. Una volta, dopo un concerto, ero in macchina con Roby (Facchinetti, ndr.) e decidemmo di partire per Bologna perché avevamo sentito dire che lì aveva nevicato e volevamo andare a vedere quella prima neve, ma, uscendo da una galleria sull’Appennino, l’asfalto bagnato si trasformò in una lastra di ghiaccio. Guidavo io e persi il controllo. Una carambola, una paura folle ma per fortuna andammo a sbattere contro l’ingresso della galleria successiva».
Lei crede?
«Da qualche tempo, la sera, metto via l’iPad per dire una preghiera. Ogni sera. È una forma di rito che mi fa bene».
Red, lei è in gran forma. Che cosa mangia?
«Non mangio carne da trent’anni e non mi manca. Ho cominciato per stare meglio di salute, ma con il tempo è diventata una scelta etica. Però ogni giorno faccio un’ora di corsa, sul tapis roulant e vado in bicicletta. Come il mio amico Roby, appena posso faccio le scale a piedi».
Di che cosa ha paura oggi?
«Di perdere la testa. Ricordo quando, un giorno, mi accorsi che mia mamma era ancora viva ma non era più con me. Spero di arrivare alla fine dei miei giorni leggendo uno dei tanti libri che tengo in una cassapanca vicino al letto».
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