Marco Drago per “Vanity Fair”
In una Milano ancora o già un po’ campagna, zona Precotto, aspetto Aldo Nove davanti a un supermercato con annesso bar per colazioni e aperitivi. Un perfetto setting à la Aldo. Mi aspetto di vedere il folletto colorato che ho imparato a conoscere da Facebook, ma arriva un figaccione tutto sommato abbigliato sobriamente.
Ho davanti a me l’unico personaggio rimasto alla letteratura italiana. Per carità, di scrittori bravi ce ne sono tanti; ma Aldo Nove si distingue per attivismo, look e seguito popolare.
Questo lo rende l’erede di Arbasino e Busi che, però, hanno raggiunto lo status di icone intoccabili e nessuno si prende la briga di disturbarli. Nove invece è vivo, nel fiore degli anni e ha appena pubblicato Anteprima mondiale, versione 2016 del suo esordio narrativo Woobinda, quello che cominciava con: «Ho ammazzato i miei genitori perché usavano un bagnoschiuma assurdo, Pure & Vegetal», e che lo rese il protégé degli avanguardisti del Gruppo 63 (Nanni Balestrini su tutti) e icona della «gioventù cannibale» e pulp di quegli anni.
Chi è davvero Aldo Nove? Un poeta, uno scrittore, un intellettuale, un mistico contemporaneo, un socialite?
aldo nove su boschi e renzi da giornalettismo
«La cosa che mi interessa di più è la poesia, ma non si può dire perché fa subito “legge Bacchelli”, quella che garantisce un vitalizio agli scrittori anziani senza mezzi di sussistenza. Allora dico di essere uno scrittore, che è più socialmente accettato. In realtà sono uno che cerca, una versione letteraria di Battiato, sempre a caccia di nuovi orizzonti. Ho fame di conoscenza, mi interessa tutto. Tutto tranne la ripetizione».
Per questo non è più tornato in televisione?
«Negli anni ’90 andai due volte al Maurizio Costanzo Show, che era il programma più importante della Tv italiana. Tipo cento volte Fazio adesso. Per due volte Costanzo mi rimbrottò: “Ah Nove, ripijjate”, perché stavo zitto. Non era il mio mondo. Sul palco del Parioli bisognava urlare, gesticolare... per carità. La prima volta mi trovai vicino alla scrittrice Chiara Zocchi, che aveva pubblicato il primo libro e aveva 17 anni».
Che cosa successe?
«Me ne innamorai così tanto che convinsi il cugino mafioso di un amico a portarmi con il suo ferrarino sotto casa di Chiara a Varese. Scena forte: io sul tettuccio a cantare il mio amore per lei che, dal balcone, vedeva un tizio grassottello e con i capelli alla Beethoven, un poeta, su quell’auto».
Un timido esibizionista, quindi. Zitto al Costanzo, ma poi vestito strano alle feste con le attrici fighe. Quale delle due versioni di sé preferisce?
«Quella in cui leggo i mistici tedeschi assieme alle attrici fighe: non sa quante ce ne siano ben disposte a lasciarsi sedurre da certe letture».
Torniamo al suo look.
«A volte vedo che la gente ride, al mio passaggio. E quanto piacere mi fa, vederli ridere. Io mi vesto così proprio per quello: per portare un sorriso. Camminando per la città si nota un’omologazione mefitica. C’è un’aria che manca l’aria, per citare Gaber. E poi anche qui la mistica ha il suo peso: San Francesco era figlio di un mercante di tessuti e si cuciva vestiti folli. Si sentiva un giullare, e io lo capisco perfettamente».
Ma lui non usciva con le attrici fighe.
«No, però non disdegnava la mondanità e aveva repulsione per le mortificazioni del corpo, come portare il cilicio e praticare il digiuno. Insomma, basta con il dualismo alto e basso, pulito e sporco, e con tutto questo ciarpame da bigotti. I bigotti sono quanto di più distante esista dai mistici. La mistica riguarda tutto l’umano, e sottolineo tutto».
Anche la sua personale discesa agli inferi, narrata nella Vita oscena, poi diventato un film, ricorda certe biografie di santi.
«Certo. Cerchi su Wikipedia Maria Maddalena de’ Pazzi. Nella Vita oscena ho raccontato il vuoto di un certo periodo della mia vita. Un vuoto riempito da droghe e sesso, in una ripetizione degradante».
Com’è stato scriverlo, e poi pubblicarlo?
«Periodo molto complesso, faticoso. Poi liberatorio, come un’autoanalisi. Mi riferisco soprattutto alla parte sulla perdita dei genitori. La passeggiata sul lato selvaggio, invece, il sesso e la droga, la interpreto ora come un disperato attaccarsi al piacere fisico, al corpo, visto che mi mancavano le relazioni sociali. Non era autodistruzione, ma una confusissima volontà di vivere».
Ha cercato di uccidersi?
«Non ricordo le volte, ma sempre senza convinzione. Ho fatto forse una overdose di pillole, in coma un giorno. Volendo, ci si ammazza al primo colpo. Mancavo di grinta. E la megastriscia di cocaina che mi ero procurato all’uopo era forse tagliata con il Viagra, dato che, invece di uccidermi, mi risvegliò un irrefrenabile desiderio sessuale».
Il sesso abbonda in Anteprima mondiale.
«Sì, ma la prospettiva è più disperata ancora: a un certo punto c’è uno della mia età che, per rievocare al meglio i pomeriggi della sua gioventù, si nasconde in soffitta a masturbarsi tutto il giorno con dei giornaletti porno d’annata; la moglie lo dà per perso e chiama la Sciarelli; lo beccano sul fatto, divorzio e fine della storia».
Se dovesse scrivere un volume che racconta le oscenità dei suoi ultimi vent’anni, sarebbe un volume corposo o smilzo?
«Molto smilzo. Le oscenità le ho esaurite, ripeto che non amo ripetermi. Io tendo a mantenere un atteggiamento da absolute beginner, come il mio adorato David Bowie».
E come fa?
«Cerco di lamentarmi poco, di creare positività. Il mio faro è Lou Reed. Lui è stato un ragazzino difficile, ha subìto decine di elettroshock. Poi, da adulto, l’abitudine l’ha risucchiato nelle sue spire e allora: eroina e promiscuità sessuale. La terza età ci ha consegnato un Lou Reed maestro di arti marziali, curioso e attivo più che mai: aveva superato l’oceano della stagnazione. Io, nel mio piccolo, faccio lo stesso, nonostante siamo in un’epoca di psicosi collettiva».
È una condizione della sua generazione?
«Frequento pochissimi coetanei, preferisco quelli più grandi di me: l’artista Arnaldo Pomodoro, 89 anni. Lo scrittore Nanni Balestrini, 80. Lo storico dell’arte Arturo Schwarz, 92. L’artista Emilio Isgrò, 78. E quel giovanotto di Gillo Dorfles, 106. Ogni volta che parlo con loro mi sento mortificato perché percepisco in pieno la differenza tra loro e me, noi. Loro la vita se la sono vissuta in pieno. Noi non ce la stiamo vivendo per niente».
Anteprima mondiale parla di questo, infatti.
«Sì, è un libro molto cupo che però fa ridere. Come sempre. La mia cifra è: cose terribili che fanno ridere».
Recentemente, su Facebook, è stato vittima di cyberbullismo per un commento sulla vicenda di Luigino D’Angelo, il pensionato di Civitavecchia che si è suicidato per aver perso 110 mila euro nel fallimento di una banca.
«Sono stato frainteso. Ho detto che la vita di un uomo valeva di più dei suoi risparmi evaporati nel grande gioco della finanza. Il mio era un discorso generico, non intendevo minimizzare il terribile episodio di cronaca, ma subito è cominciata l’ondata di commenti che mi davano del cinico. Poi gli insulti e infine le minacce di morte».
Come si è sentito?
«All’inizio molto male. Ero incazzato ma anche dispiaciuto. Facebook è uno straordinario laboratorio linguistico: bisogna riflettere molto bene prima di scriverci. Se prima di pubblicare quel post avessi aspettato cinque minuti e precisato meglio il mio pensiero, non sarebbe successo niente.
Vedo tante cose positive nei social: ho 14 mila follower e a volte si sviluppano dei lunghissimi discorsi corali molto belli, quasi una nuova forma di letteratura. Poi ci sono anche i deficienti, ma quelli si bannano».