1 - DAGOREPORT
Con un volo privato da Lugano a Kabul il nonno materno ha portato via Mustafà dall’Italia. Il bimbo orfano, che era stato affidato dal Tribunale agli zii paterni, è stato rapito dal nonno materno, il musulmano Omar, e portato in segreto a Baghdad “dove sarà – ha dichiarato il nonno – educato secondo i principi della sharia”. Oggi sarebbe stato il suo primo giorno di scuola nell’Istituto superiore cattolico dedicato a Santa Maddalena.
Immediate e furibonde le reazioni dal mondo politico. Per il leader della Lega, Matteo Salvini “nel nostro Paese, ormai, è tutto possibile per gli islamici. Questo è il vero volto dell’Islam. Il bambino va fatto immediatamente tornare con le buone o con le cattive.
Mustafà è un cittadino italiano, è nato qui e questi vengono a fare i padroni a casa nostra”. Per Giorgia Meloni, di FI, “il ministro Lamorgese si deve immediatamente dimettere: com’è possibile che si rapisca un bambino e lo si imbarchi segretamente su un aereo? Questo è un attacco alla cultura occidentale che non può rimanere impunite: il nonno va immediatamente catturato e processato”.
Per Matteo Renzi siamo di fronte “a un fatto di inaudita gravità di fronte al quale dobbiamo intervenire immediatamente per far tornare Mustafà e consegnare alla giustizia italiana il nonno”.
Per Enrico Letta è “un fatto gravissimo del quale, però, si deve occupare la magistratura: sino al terzo grado sono tutti innocenti”. Per Conte, “dobbiamo parlare con il nonno, ma non cedere ai ricatti. E’ necessario avviare subito contatti diplomatici”.
Unanime lo sdegno sui giornali. Sul “Corriere” Galli della Loggia parla di “linea del Piave che è stata superata”; sua moglie, Lucetta Scaraffia, su un altro quotidiano scrive di “attacco alla cultura cristiana al quale Mustafà era stato indirizzato”. Si intitola: “Ecco di cosa i musulmani sono capaci” l’editoriale di Fiamma Nirenstein su “il Giornale” mentre Sallusti, su “Libero” parla di “deriva islamica causata dalla sinistra”.
Anche a sinistra forte è lo sdegno, con qualche sfumatura su “il manifesto” che titola “Volo libero”. Il parlamentare del Pd Fiano ha chiesto che i ministri degli Interni e degli Esteri riferiscano in aula. Intervistata, Liliana Segre ha ricordato i tempi cupi in cui, con analoga violenza i bambini venivano sottratti alle famiglie che non avrebbero mai più rivisto. Questa sera, su la 7, uno speciale condotto da Mentana e Parenzo. Ospite Moni Ovadia.
2 - "ABBIAMO AGITO PER IL SUO BENE, QUI CON NOI AVRA' UN FUTURO FELICE"
Fabiana Magrì per "la Stampa"
Un lungo edificio di mattoni rossi con tante piccole finestre. Una parete a specchi che sovrasta l'ingresso e tutto intorno il via vai di un'ordinaria domenica israeliana. Lo Sheba medical center di Tel HaShomer, a est di Tel Aviv, è da sempre una delle eccellenze mondiali in ambito sanitario, diventata anche l'ultima tappa del viaggio di Eitan.
«La sua casa», come l'ha definita la zia materna Gali nel messaggio inviato per avvisare i parenti paterni che ancora attendevano il suo rientro a Pavia. Una fuga, un ritorno a casa o un rapimento, a seconda delle versioni degli uni o degli altri. Un viaggio, in ogni caso, partito da Pavia e terminato, per adesso, alla periferia orientale di Tel Aviv. Piuttosto che unire i due "clan", quello materno dei Peleg e quello paterno dei Biran, la tragedia che si è consumata il 23 maggio 2021 in Italia, ha innescato una spirale di azioni e reazioni, un vero e proprio effetto a valanga su una serie di dissapori e divergenze culminati nel trasferimento forzato in Medioriente.
«Dall'Italia non avevamo più notizie di lui, abbiamo agito per il suo bene» ha ribadito ieri Gali spiegando che «adesso merita una vita normale fatta di amici, sport e famiglia». Poi per spiegare il blitz aggiunge: «Siamo stati obbligati ad agire così, non avevamo notizie sulle sue condizioni mentali e di salute. Potevamo solo vederlo per breve tempo. Lo abbiamo riportato a casa, così come i genitori volevano per lui». E ancora: «Eitan ha urlato di emozione quando ci ha visto ed ha detto "finalmente sono in Israele"».
L'esatto contrario di quanto ha raccontato la zia affidataria, Aya, da Pavia. Per provare a capire qualcosa in questa faida famigliare fatta di amori, interessi economici, valori culturali ed educazione religiosa bisogna spostarsi a Ramat Aviv, un sobborgo residenziale al nord di Tel Aviv, dove vive Etty Peleg (57 anni), la nonna materna. Nell'incidente, oltre alla figlia, al genero e al nipotino minore, la signora Peleg Cohen ha perso anche suo padre Itzhak (detto affettuosamente Izzy) e sua madre, cioè il bisnonno paterno dei bambini. Stretti intorno alla madre, a Ramat Aviv, ci sono le sorelle Gali (29 anni) e Aviv (22) e il fratello Guy (32).
I tre, oltre a Tal, sono figli di Etty e Shmuel Peleg (58), nati prima del loro divorzio. Sono stati i tre figli, l'11 agosto, a convocare la prima conferenza stampa in Israele, sollevando le gravi accuse iniziali contro Aya Biran. Ed è stato l'ex marito Shmuel, sabato, a prelevare il nipotino Eitan e a portarlo in Israele dove adesso sta ricevendo assistenza medica e supporto psicologico. Shmuel e suo figlio Guy sono i due parenti di Eitan dal lato materno che accompagnarono le bare nel viaggio verso Israele.
Con loro, a bordo dell'aereo, c'erano anche il padre di Amit e due fratelli del ragazzo, che vivono ad Aviel, un villaggio agricolo nel nord di Israele, dove si è officiato il funerale della coppia e del bambino piccolo, che adesso sono sepolti lì. Sotto le fronde degli alberi nel cimitero, al riparo dalla calura, erano state ammesse poche centinaia di persone, solo le famiglie del moshav. A cui i famigliari di Amit avevano aperto le porte di casa nei sette giorni successi, quelli della shivà, il lutto ebraico.
Quel giorno Etty Peleg non ce l'aveva fatta a partecipare alla funzione ed era rimasta nella sua auto. Il giorno successivo, ai funerali di Izzy Cohen, era stato il padre di Amit a non essere presente. Stava già tornando in Italia e, subito dopo, l'aveva seguito anche Shmuel. In quei giorni di pieno lutto si era appresa la notizia che Aya era stata investita della custodia di Eitan. Ma il suo posto è in Israele, ripete da sempre nonna Etty. Sostiene che Tal e Amit stessero programmando il loro rientro permanente in Israele per l'anno prossimo.
Al quotidiano Israel Hayom ha raccontato che avevano perfino comprato un appartamento a Ramat Hasharon, un elegante centro residenziale a pochi chilometri da Ramat Aviv. E poi c'è la questione identitaria, culturale e religiosa, a preoccupare il ramo materno della famiglia. «Tal e Amit si rivolgevano a Eitan e a Tom in ebraico e parlavano di ebraismo e di Israele», si è sfogata con Israel Hayom. Invece, in una delle sue visite ad Aya, alla nonna del bambino è balzata all'occhio l'assenza della mezuzah sulla porta e di qualsivoglia simbolo ebraico in casa. La notizia dell'iscrizione del nipote a una scuola religiosa cattolica ha ulteriormente infastidito la famiglia lontana.
«Questa non è l'eredità che Amit e Tal volevano trasmettergli, è proprio l'opposto». Parcheggiata in strada nella via dove vive Etty Peleg Cohen, come lei stessa ha confidato nell'intervista, c'è una Renault rossa nuova di zecca. L'aveva comprata un mese prima del disastro che ha ucciso i suoi cari, in vista di una loro visita in programma a luglio. Dopo l'incidente, proprio non ci pensa a venderla. Aveva promesso che l'avrebbe usata per portare Eitan in giro, con la sua famiglia, nella sua vera patria.