Federica Pelosi per “la Stampa”
«Il lieto fine è possibile, anche in India: spero che questo messaggio arrivi ai nostri marò». Il pensiero di Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni va ad altri due italiani – Massimiliano Latorre e Salvatore Girone - alle prese da anni con la giustizia indiana.
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Il trentaduenne albenganese e l’amica di Torino ne hanno trascorsi quasi cinque nel carcere di Varanasi, da quel 7 febbraio 2010 in cui vennero accusati di aver ucciso il loro compagno di viaggio, Francesco Montis, trovato in fin di vita nella camera d’albergo che i tre condividevano. Dopo due sentenze all’ergastolo annullate dalla decisione della Corte Suprema di New Delhi, sabato sera i due sono atterrati all’aeroporto di Malpensa, per poi tornare ognuno a casa propria. Ed è Tomaso Bruno a parlare a caldo.
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Come si sopravvive a un’esperienza come questa?
«Con calma e fiducia, le stesse che, ne sono certo, riporteranno a casa anche i marò. Non sarei comunque stato così forte senza i miei famigliari, che hanno sofferto più di me: alla fine chi sta in carcere sa cosa succede, ma chi non c’è può pensare di tutto, e angosciarsi. La prigione di Varanasi è dura, si sta stretti, ci sono regole da rispettare, punizioni severe cui ho purtroppo assistito, ma gli stranieri sono trattati con rispetto, e nessuno ha mai usato violenza contro di me o Elisabetta».
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Che ricordo ha del giorno dell’arresto?
«E’ stato surreale. Il giorno prima sei un semplice turista e quello dopo ti indicano come un assassino. Il momento peggiore è stato quando ci hanno trasferiti dall’albergo alla prigione: non ci dicevano nulla, eravamo su una macchina con altri due detenuti, e il viaggio non finiva più. Lì ho provato puro panico».
E quando si è chiusa la porta?
«Il letto erano delle coperte buttate per terra. La cella in realtà era una grande camerata dove vivevo insieme ad altri 130 detenuti: c’erano rapinatori, assassini, ladri, truffatori. Mi alzavo alle 5, facevo conversazione e giocavo a cricket con gli altri detenuti. Con Elisabetta mi incontravo il sabato».
Cos’è successo il 4 febbraio 2010 in quella camera d’hotel?
«La sera prima, io Eli e Checco siamo andati a dormire piuttosto presto perché il giorno dopo dovevamo ripartire. La mattina lei mi ha svegliato tutta trafelata, dicendo che c’era qualcosa che non andava. Checco non respirava e aveva la bava alla bocca. A quel punto abbiamo chiamato lo staff dell’albergo ed è partita la corsa in ospedale».
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E i sospetti sono cascati subito su di voi.
«Ci hanno ritirato i passaporti, dicendo che li avrebbero restituiti dopo l’autopsia. Non mi sono preoccupato, anche perché mai avrei immaginato che quell’esame sarebbe stato portato avanti in un modo così poco trasparente. E così ci hanno piantonato per tre giorni per poi portarci in un carcere».
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Qui avete trascorso 5 anni, con due sentenze all’ergastolo sulle spalle.
«All’ergastolo non ho mai pensato: davanti ad ogni decisione dei giudici, mi concentravo sul passo successivo da fare. Lo stesso faceva Elisabetta che è stata un’ottima compagna di viaggio. Col passare del tempo mi sono integrato, ho imparato l’hindi, e presto, da semplice straniero, sono diventato un fratello. Ho lasciato degli amici là dentro».
Lì ha perso un altro amico, Francesco. La madre del ragazzo, dopo la notizia della vostra scarcerazione ha detto: «Me lo hanno ucciso una seconda volta».
«Sono molto addolorato e stupito. Non ho ancora pensato se parlare con loro o meno. Francesco era una persona gioviale, uno cui piaceva divertirsi. Io ed Eli gli volevamo bene».
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