Mario Baudino per "la Stampa" - Estratti
Quel che colpiva di Franco Ferrarotti, scomparso ieri a Roma a 98 anni, era la capacità di muoversi con un passo sapiente e velocissimo in una foresta di libri, dalla Letteratura alla Scienza, alla Sociologia ovviamente, disciplina che ha portato per primo in Italia nell'università, quando nel 1961 ebbe a La Sapienza la cattedra da cui avrebbe insegnato fino al 2002. Il suo campo d'indagine privilegiato era il potere, ovvero i meccanismi che lo legittimano, e le grandi trasformazioni della società, le linee direttive e culturali attraverso cui si manifestano.
Nato a Palazzolo Vercellese nel 1926, scoprì i nostri positivisti dell'Ottocento studiando in un collegio a Sanremo, si laureò in Filosofia a Torino (nel 1941), si avvicinò all'Einaudi e ad Adriano Olivetti, tradusse dall'inglese per la collana viola dell'amico Cesare Pavese, entrò alla Olivetti dove respirò la grande spinta all'innovazione del gruppo di Comunità, che lo ha accompagnato in tutta la sua lunga vita intellettuale.
Guardava intanto all'America come terreno fertile di indicazioni e suggestioni per quella che fino ad allora è una "scienza nuova" e ci andrà molto presto, nel 1951, aiutato da Camillo Olivetti, proprio nell'anno in cui aveva fondato con Nicola Abbagnano, il suo professore e maestro, i Quaderni di sociologia, destinati a essere sostituiti poi negli anni '60 da una nuova rivista, La Critica sociologica.
Quel che Ferrarotti imparava soprattutto in America è l'attenzione al mondo della fabbrica (Il dilemma dei sindacati americani è il suo testo importante pubblicato nel 1954), con uno sguardo laico e non ideologico. Ma fin da subito è studioso eclettico, attento a tutto, quasi in preda a una sorta di bulimia felice. Rock, rap e l'immortalità dell'anima (1996) per esempio esplorava la musica.
E spiegava che «come il jazz, prima che fosse quasi totalmente assorbito nell'ortodossia della sinistra salottiera e perbenistica, anche il rock è stata musica d'opposizione, liberatoria, alternativa». Fu persino trascinato al Festival di Woodstock dai suoi studenti americani, ma raccontò di non aver resistito fino alla fine.
Era un innovatore, attento soprattutto a individuare quanto di radicale si muovesse nella società. Ed era un bibliofilo appassionato che ha consegnato per esempio le sue riflessioni a una sorta di trattatello, Leggere, leggersi uscito per l'editore Donzelli nel 1998, mostrando indulgenza anche nei confronti di chi, magari, li rubava, i libri; come l'affamato, scriveva, ruba il pane. Anni fa ci raccontò di un suo incontro con Beppe Fenoglio propiziato da Cesare Pavese, ma nel 1948, quando risulta che i primi contatti con l'Einaudi, attraverso però Calvino, erano del 1950.
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I libri, soprattutto i libri, intesi come strumento di democrazia, hanno fatto parte integrante della sua battaglia di studio e conoscenza sempre alla ricerca di una idea (ma anche e soprattutto una prassi) di democrazia non rituale, partecipata, realizzata nel confronto giorno per giorno.
Questa spinta ideale – e pragmatica: fu deputato al Parlamento per la terza legislatura (1958-63), eletto per il Movimento di comunità - non lo abbandonò mai. Ancora di recente ha espresso la sua preoccupazione per le autocrazie orientali e in parallelo per l'inadeguatezza dei politologi occidentali.
E nel 2018 ha pubblicato un piccolo Dialogo sulla poesia (Gattomerlino editore), dove confessa di aver avuto con essa sì un rapporto difficile ma anche «vero e dolorosissimo, e straordinario, essenziale. Senza poesia, senza musica, senza l'armonia concettuale filosofica, io dovrei imitare il mio vecchio amico Pavese e andarmene. Però in fondo sono troppo ottimista e vitale!». Autoritratto perfetto.