Stefano Caselli per "il Fatto Quotidiano"
Nancy pelosi e Sergio Marchionne al salone di Detroit davanti alla 500Se Gianni Agnelli amava ripetere che "ciò che è bene per la Fiat è un bene anche per l'Italia", Sergio Marchionne sembra pensare molto alla Fiat e poco all'Italia. Questo, almeno, stando alle proteste dopo la decisione unilaterale del Lingotto di ricorrere alla cassa integrazione per due settimane, in tutti gli stabilimenti del paese, da Mirafiori a Termini Imerese. Protesta il governo, protestano i sindacati, non protesta quasi per nulla il Partito democratico: "C'è una forte dipendenza psicologica dalla Fiat, soprattutto a Torino. Per il Pd, poi, Marchionne è sempre stato un partner ideale", sostiene Marco Revelli, torinese, storico e sociologo della politica".
Professor Revelli, perché il Pd è così timido nel prendere una posizione sullo scontro tra governo e Fiat sugli incentivi all'auto e lo stop della produzione nelle fabbriche?
Alcuni lavoratori di Termini Imerese durante la manifestazione di ieri a PalermoColpisce l'afasia del Pd, ma in qualche misura è un fatto spiegabile. Per il gruppo dirigente democratico Marchionne è un po' l'equivalente di Barack Obama. Una delle pochissime cose certe in quel partito è l'idea di avere un riferimento forte all'interno della classe dirigente. Marchionne è sembrato rispondere al ritratto dell'ultimo esponente di quel capitalismo illuminato che non si sa bene che fine abbia fatto. Ma è un punto di vista - temo - errato, perché nasce da una profonda incomprensione su che cosa sia realmente la Fiat oggi.
Cos'è oggi la Fiat?
La Fiat è una transnazionale leggera, che conserva i vecchi vizi dell'azienda "campione nazionale". Continua a considerarsi il solo fattore strategico di sviluppo di questo paese a cui spettano - per tradizione e per diritto - assistenza e finanziamento pubblico. È sempre stato così, fin dai tempi del fascismo.
Peccato però che la Fiat non sia più un campione nazionale. Basti pensare che sul mercato italiano importa da se stessa, perché - com'è noto - produce in patria più o meno un terzo delle macchine che vende in Italia. Questo avrebbe dovuto suggerire ai sindacati un veto sulla proroga degli incentivi alla rottamazione (ancora finanziamento pubblico). Invece si è pensato soltanto a salvare il salvabile.
famiglia agnelliColpisce in questi giorni il silenzio quasi totale della dirigenza del Pd torinese, che governa questa città da quasi vent'anni.
Il motivo principale di questa reticenza, tuttavia, è il profondo imbarazzo di fronte alla prospettiva del fallimento di un'idea strategica che la sinistra ha portato avanti a Torino e in Piemonte: il superamento della crisi sociale e di identità nata dalla trasformazione della grande città industriale dal fordismo al post-fordismo grazie a una solida alleanza con il vecchio e persistente potere della famiglia Agnelli.
Uscire dalla crisi, insomma, a braccetto di chi, della crisi, era fondamentalmente la causa. È un'opzione - anche se a breve non vedo scenari catastrofici per Torino - che rischia il fallimento. Per anni, su questi presupposti, si sono strutturate alleanze, fatte scelte strategiche, governate le banche e indirizzato lo sviluppo urbano. Torino, al di là dell'opzione edilizia turistico-circense stile Olimpiadi, non ha mai davvero cercato soluzioni strategiche diverse.
Basti pensare all'hi-tech, morto nella culla nei primi anni Duemila e definitivamente abbandonato con la crisi di Motorola. Insomma, per molti - forse - siamo di fronte a un ‘tradimento' e questo spiega un certo imbarazzo. Ma a Marchionne va comunque riconosciuto di aver sempre parlato chiaro. Illusioni, lui, non ne ha mai date. E le nuove strategie industriali della Fiat, sinceramente, non mi sembrano un reale potenziale di sviluppo per Torino".
Ma chi rappresenta davvero il Partito democratico? Gli operai?
MARCHIONNEÈ chiaro che, in questa fase storica, il Pd rappresenta solo se stesso. È un reticolo di oligarchie a cavallo tra amministrazione pubblica e sistema degli interessi, un agglomerato di poteri che si risolve in una rete di patti tra i poteri stessi. Il corpo centrale del Partito democratico sono gli amministratori, non gli elettori; amministratori legati a una serie di filiere di fedeltà che in buona parte derivano da storie pregresse, quella del Partito comunista su tutte, con l'ovvia differenza che il Pci era ben radicato tra gli elettori. In più c'è una classe dirigente un po' al di là con gli anni, fatto salvo qualche rincalzo di quarantenni cooptati negli ultimi 15 anni, ma sempre nei circuiti dell'amministrazione. Per ora il Pd è ancora un partito che parla un linguaggio burocratico, senza muovere vere passioni.
Teme che questa combinazione di due crisi - una politica e una industriale - possa produrre, o riprodurre, tensioni sociali?
Il disagio sociale esiste ed è evidente, anche in una città come Torino. Ma è un disagio opaco, inedito, che non viene raccontato. Ci sono ampi strati sociali che percepiscono chiaramente il proprio impoverimento. Il risultato è quasi sempre una disperazione individuale. Manca la valvola di sicurezza del conflitto sociale, ossia la dimensione collettiva del disagio.