Marcello Sorgi per “La Stampa” - Estratti
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Che Paese siamo, in che Paese viviamo, se perfino il Presidente della Repubblica ammette pubblicamente di aver promulgato leggi che non gli piacevano? E perché non le ha elencate, queste leggi, anche se le prime tre, le prime cinque, di una lista destinata ad allungarsi, è piuttosto facile indovinarle?
A qualcuno dei ragazzi che ascoltavano Mattarella, ieri, magari saranno passate per la testa domande come queste. Avranno pensato che quello del Capo dello Stato era uno sfogo, una confessione, voce dal sen fuggita.
E invece no: si è trattato di una rara e autorevolissima, per il pulpito da cui proveniva, lezione di diritto costituzionale vivente, tenuta non solo da un professore della materia, ma da un uomo a cui è toccato in sorte applicare la Costituzione nel momento in cui tutti i poteri dello Stato, che dovrebbero cercare di cooperare, sono in lotta tra loro.
MELONI - FAZZOLARI - GIORGETTI - FITTO - MATTARELLA
E cosa potrebbe accadere se anche il Presidente della Repubblica, la più alta carica del sistema istituzionale, decidesse di fare di testa sua, rifiutandosi di firmare norme approvate dal Parlamento che non gli piacciono?
Mattarella pensa che non debba accadere, ed è per questo che ha rivelato di aver promulgato leggi che non condivideva. Era un suo dovere, al quale non ha voluto sottrarsi. E poi c'è sempre la speranza che possa servire da esempio. Ma l'accenno alla coesione – che non c'è – e alla confusione che si ricava da questa sorta di guerra di tutti contro tutti (Mattarella non ha usato queste parole, ma il senso non cambia) non è stato posto a caso nell'intervento del Presidente.
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Niente è a caso nelle uscite pubbliche del Capo dello Stato, tal che rivedendole, riascoltandole, si può individuare il filo di un ragionamento coerente. Se le istituzioni collaborano, anche la qualità del discorso pubblico migliora. Vale in generale, e vale nel particolare di queste ultime settimane.
Giorni in cui, dopo un periodo di gelo evidente, il Quirinale e Palazzo Chigi si sono trovati a condividere la ricerca di una soluzione per almeno due importanti problemi. Primo, lo scontro sul destino dei migranti trasferiti in Albania, nei nuovi centri di permanenza voluti dal governo, e poi subito fatti rientrare su ordine di magistrati del Tribunale di Roma.
MELONI E MATTARELLA CON FAZZOLARI, TAJANI, GIORGETTI, FITTO E ZAMPETTI
Un braccio di ferro tra esecutivo e toghe, con il vicepremier Salvini che ha soffiato sul fuoco e la premier rimasta, al contrario, quasi in silenzio. E secondo, il difficile passaggio del ministro Fitto, attraverso la procedura europea che richiede la fiducia dell'Europarlamento per validare la sua nomina a vicepresidente della Commissione e a commissario per l'attuazione del Pnrr e per la Coesione.
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In entrambi i casi – più silenziosamente nel primo, più esplicitamente nel secondo – Mattarella s'è mosso, con la cautela che gli è congeniale, ma anche con la fermezza del carattere. Il monito che ha rivolto all'Europa in difesa di Fitto come rappresentante dell'Italia, e non di una parte politica, era chiaramente diretto anche all'opposizione, e in particolare al Pd, che con le sue resistenze rischia di far saltare l'intera Commissione. E il silenzio osservato sul duro confronto tra esecutivo e magistrati era un chiaro richiamo al governo, dopo l'incidente della visita a Palazzo Chigi del vicepresidente del Csm, Fabio Pinelli.
In entrambi i casi Meloni ha lasciato trapelare attenzione e rispetto verso il Quirinale.
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SERGIO MATTARELLA - OSSERVATORIO PERMANENTE GIOVANI EDITORI