Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera- Estratti
La sua autobiografia che esce oggi, scritta con Mario Desiati e pubblicata da Mondadori, si intitola «Cadere, rialzarsi, cadere, rialzarsi».
«C’è qualcosa di masochista, nel portiere. I campi della mia giovinezza erano gli stessi degli anni 70: l’area dura come il cemento. I vecchi portieri li riconosci dalle mani ferite, dai fianchi dolenti, dalle tante volte che sono caduti fino a sanguinare. Ho avuto un solo procuratore nella vita, Silvano Martina. E l’ho scelto perché aveva le mani piene di cicatrici. Mani da portiere».
A leggere il libro, pare che nel portiere ci sia anche una vena di follia. Almeno in lei.
«Sì, una vena di follia ce l’ho. Il portiere parla da solo. Parla con i suoi guantoni. Soprattutto, ho sempre avuto una buona dose di strafottenza. Senza di quella, non sarei sopravvissuto».
Perché?
«Provi lei a esordire in serie A a 17 anni con il Parma primo in classifica, contro il Milan a pari merito».
Era il 1995.
«Nel sottopassaggio incrociai gli sguardi di Weah, Boban, Costacurta, Baresi. A un certo punto sentii una pacca sulla spalla. Era Paolo Maldini, che mi incoraggiava. Anche lui aveva esordito in A da ragazzino: sapeva cosa voleva dire. Non ho mai dimenticato quel gesto. Paolo Maldini non è stato soltanto un calciatore immenso; ha le due qualità che ammiro di più in un uomo, lealtà e coraggio».
A fine partita lei è sempre andato ad abbracciare gli avversari. Tutti amici?
«No. Ricordo un attaccante del Benfica che mi diede un calcio terribile alla mano, palesemente apposta, mi fece un male tremendo, e mi guardò senza nessuna intenzione di chiedere scusa».
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Chi è stato il più forte contro cui ha giocato?
«Ho giocato con tre generazioni, come faccio a dirlo? Zidane, Ronaldo, Messi, CR7, Iniesta...».
Ne scelga uno.
«Neymar. Per il giocatore e il ragazzo che è, avrebbe dovuto vincere cinque Palloni d’Oro».
Avete giocato insieme al Psg, dove lei inseguiva il suo sogno: la Champions.
«Avevamo vinto 2-0 a Manchester con lo United. Capivo che non stavamo preparando in modo giusto il ritorno. Ma non lo dissi: in fondo ero l’ultimo arrivato, forse avevo ancora una mentalità provinciale, in fondo quelli erano tutti campioni, Mbappé aveva appena vinto il Mondiale... Prendemmo gol subito per un errore difensivo, il secondo fu anche colpa di una mia respinta imprecisa, beccammo il terzo e fummo eliminati. Non avevamo preparato in modo giusto il ritorno».
Perché la Juve non vince quasi mai la Champions?
«Parlo delle mie tre finali. Il Barcellona del 2015 e il Real Madrid del 2017 erano le squadre più forti degli ultimi vent’anni. E nel 2003 avevamo comunque di fronte il Milan di Shevchenko».
Perdeste ai rigori. E qualche mese dopo, rivela nel libro, lei cadde in depressione. Come andò?
«Era la fine del 2003, il campionato era cominciato bene, poi cominciammo a perdere colpi e stimoli. Eravamo reduci da due scudetti di fila: dopo l’up, il down. Mi si spalancò davanti il vuoto. Cominciai a dormire male. Mi coricavo e mi prendeva l’ansia, pensando che non avrei chiuso occhio».
Poi accadde anche in campo.
«Un attacco di panico. Sentivo una pressione al petto, non riuscivo a respirare, pensai che non avrei mai voluto essere lì e non avrei mai potuto giocare la partita».
Una partita decisiva?
«No. Juve-Reggina, in casa. Andai dall’allenatore dei portieri, che era un grande: Ivano Bordon. Lui mi tranquillizzò: “Gigi, non devi giocare per forza”. Ripresi fiato. Guardai scaldarsi il secondo portiere, Chimenti, che è un mio carissimo amico. E pensai che ero davanti a una sliding door, a un passaggio decisivo della mia carriera, della mia vita».
Perché?
«Mi dissi: Gigi, se tu non entri in campo stavolta, crei un precedente con te stesso. Magari ti succederà una seconda volta, e poi un’altra ancora. E non potrai più giocare. Così entrai in campo. Feci subito una buona parata. Che salvò il risultato, perché poi vincemmo 1-0. Ma il problema rimaneva. Il dottor Agricola fece la diagnosi, poi confermata dalla psicoterapeuta: depressione».
Come ne è uscito?
«Rifiutai i farmaci. Ne avrei avuto bisogno, ma temevo di diventarne dipendente. Dalla psicoterapeuta andai solo tre o quattro volte, ma mi diede un consiglio prezioso: coltivare altri interessi, non focalizzarmi del tutto sul calcio».
Quali altri interessi?
«Fu allora che scoprii la pittura. Andai alla Galleria d’arte moderna di Torino. C’era una mostra di Chagall. Presi l’audioguida. Davanti alla Passeggiata rimasi bloccato per un’ora. È un quadro semplice, raffigura Chagall con la moglie Bella mano nella mano; solo che lei vola. Il giorno dopo, tornai. La cassiera mi disse: guardi Buffon che è la stessa mostra di ieri. Risposi: grazie, lo so, ma voglio rivederla».
Non si guarisce così facilmente da una depressione.
«Certo. Ma la mia vita è stata davvero così: cadere, rialzarsi. Ho fatto errori, come tutti, e non li ho mai nascosti».
Quali altri errori?
«Avevo il complesso di non essermi diplomato. Mi sentivo in colpa verso i miei genitori, volevo iscrivermi all’università. Stavo facendo un massaggio defatigante, e i due massaggiatori, due Lucignolo, mi dicono che ci pensano loro, che tutti i calciatori fanno così... Insomma, mi procurarono un diploma falso. Un’ingenuità incredibile. Che ho pagato».
GIGI BUFFON E LUCIANO SPALLETTI
Dissero che era fascista, per la maglietta con la scritta «boia chi molla» e il numero 88.
«Non avevo la minima idea che per qualcuno evoca Heil Hitler, essendo la H l’ottava lettera dell’alfabeto; per me voleva dire avere quattro palle».
La famosa strafottenza.
«E non avevo la minima idea che “boia chi molla” fosse un motto neofascista. Un giorno l’allenatore del Parma, che era Ulivieri, mi convoca e mi fa trovare un busto di Lenin».
Ulivieri è uomo di sinistra.
«Il Parma si giocava la finale di Coppa Italia, e io avevo insistito perché scendesse in campo il secondo portiere, Guardalben, che aveva disputato tutta la competizione. Ulivieri mi disse: tu Gigi non sei fascista, sei comunista, perché hai fatto un gesto straordinario per un tuo compagno».
gigi riva fabio cannavaro gigi buffon
Ma lei Buffon come la pensa veramente?
«Di sicuro non sono fascista, tanto meno razzista. Ho chiamato il mio primogenito Louis Thomas, che ora gioca attaccante nelle giovanili del Pisa, in onore dell’eroe della mia infanzia: Thomas N’Kono. Sono stato l’unico europeo ad andare in Camerun per il suo addio al calcio: un ricordo stupendo».
Le pagine su N’Kono sono tra le più belle del libro. Ma, ripeto: lei come la pensa?
«Sono un anarchico conservatore. Carrara, la mia città, è terra di anarchici. Credo profondamente nella libertà, e ho pagato un prezzo per questo. Abbraccio i giornalisti, ma non ho mai cercato la loro complicità. E i giornali, i social, contano molto nel nostro ambiente».
Mi faccia un esempio.
«Avevo già lasciato la Nazionale, quando Gigi Di Biagio, subentrato a Ventura, mi propone di tornare, per aiutare l’inserimento di Donnarumma. Accetto volentieri. Torno nella stanza 209 di Coverciano. Ma sui giornali e sui social comincia una campagna contro di me: Buffon è vecchio, ma non vuol farsi da parte... Fabbricavano meme in cui io, rugoso, proclamavo: punto ai Mondiali del 2500! Era tutto palesemente orchestrato da qualcuno, forse un procuratore. Così rinunciai».
errore di gigi buffon contro il perugia
Dopo 176 presenze nella Nazionale maggiore, più 24 nelle giovanili. Record forse imbattibile.
«Il presidente Gravina gentilmente mi offrì di organizzare una partita di addio. Risposi che non ce ne sarebbero state».
Ma ha continuato a giocare.
«Mi voleva l’Atalanta. Gasperini mi scrisse un WhatsApp: “Con te vinciamo la Champions”. Fu Pirlo a convincermi a restare alla Juve».
La carriera la chiuse a Parma.
«Avevo un’offerta dal Barcellona come secondo portiere: l’idea di giocare con Messi, dopo CR7, mi piaceva. Un giorno però stavo guidando, e alla radio danno una canzone di Jovanotti che ho amato molto e non sentivo da dieci anni: “Bella”. Alzo lo sguardo, e vedo il casello di Parma. Un segno. Chiudere dove tutto era cominciato».
Che tipo è Messi?
«Finale di Champions del 2015. Intervallo. Sento una mano sulla schiena: “Gigi, ce la scambiamo adesso la camiseta?”. Era Messi. I veri grandi non se la tirano mai».
E Cristiano Ronaldo?
«Abbiamo sempre avuto un bellissimo rapporto: confidenze, giudizi sulle nuove leve. Vedevo in lui una grande forza e anche una fragilità, legata all’assenza del padre, al percorso duro che ha dovuto affrontare».
Chi è stato il suo vero compagno di strada?
«Quel ragazzo anche lui un po’ strafottente, con l’accento romano, due anni più grande di me, che conobbi nella Nazionale under 16: Francesco Totti. Si creò subito una forte empatia. Francesco è un cavallo di razza: va amato e protetto».
Le scommesse.
«Parliamone».
È la sua debolezza.
«Lo è stata, fino a quando non ho trovato il mio centro. Per qualcuno è un vizio. Per me era adrenalina. Di una cosa sono certo: non ho mai fatto nulla di illegale. Infatti non sono mai stato indagato, non ho mai ricevuto un avviso di garanzia. Perché non ho mai scommesso sulla Juve o sulla Nazionale o sul calcio. Ho sempre e solo scommesso sul basket americano e sul tennis. Ora al massimo vado due o tre volte l’anno al casinò. Ma non ne sento il bisogno».
Ogni tanto però la cosa torna fuori.
«È successo due volte. La prima nel 2006, al tempo di Calciopoli, quando nel mirino c’era la Juve. Ero a Coverciano, solita stanza 209, ritiro premondiale. Venne da me il nostro dirigente accompagnatore, con cui avevo un rapporto speciale, Gigi Riva: “Se hai fatto qualche cazzata, dimmelo”. Risposi, con una punta di sadismo: “Gigi, mi conosci. Quindi conosci già la risposta”. Qualche giorno dopo venne a dirmi: “Ho preso la mie informazioni. Avevi ragione tu”».
gigi buffon lilian thuram daniel bravo
La seconda volta?
«Era il 2012, prima dell’Europeo. Dormivo beatamente nella stanza 209, quando arrivò la polizia. Nel ritiro della Nazionale, alle 5 del mattino, con le telecamere fuori: i giornalisti erano stati avvertiti. Erano lì per Criscito. Lo trovai ingiusto, e lo dissi. Criscito non ebbe un giorno di squalifica; intanto però perse l’Europeo. Io fui convocato in procura. Ero talmente sicuro di non aver fatto nulla che andai da solo, senza l’avvocato. E ci rimasi male nel vedermi torchiato. Sempre con le stesse domande. Alle quali ho sempre dato le stesse risposte. La verità: non ho mai scommesso sul calcio».
buffon e lo striscione con la croce celtica
In quell’Europeo l’Italia arrivò in finale. Con Cassano e Balotelli. Di Cassano si raccontava che lei fosse la vittima designata.
«Tutto falso. Siamo sempre andati d’accordo. E in un ritiro che dura un mese, Antonio è un compagno perfetto: tiene su il gruppo, crea energia, riempie i vuoti. L’ho sempre detto anche a lui, però: in una stagione lunga un anno, non so se l’avrei sopportato...». (Buffon ride).
E Balotelli? Si è perso, o non era così forte come credevamo?
«Si è un po’ perso, perché ha smarrito la concentrazione sul vero obiettivo: diventare il campionissimo che in potenza era. Però vederlo a 34 anni al Genoa, a provarci ancora, mi emoziona».
Come avete vinto il Mondiale 2006?
«Si era creata un’atmosfera straordinaria, di fiducia e unità, che era mancata quattro anni prima in Corea, dove pure eravamo fortissimi».
Nel 2006 Francia e Brasile erano più forti di noi.
buffon con la scritta boia chi molla
«Non siamo mai andati ai Mondiali da favoriti. Forse solo nel 1990 e nel 1994 avevamo la squadra migliore. Nel 2006 siamo cresciuti partita dopo partita. Anche per dimostrare, in piena Calciopoli, chi eravamo davvero».
Chi era davvero Luciano Moggi?
«Una persona simpatica e controversa, un dirigente che ha sempre avuto successo, un carismatico che teneva a distanza i calciatori ma li sapeva prendere».
Alla Juve è costato due scudetti. Revocati.
«Chi c’era sa che sul campo li abbiamo vinti noi. In un ambiente dove i puri che potevano scagliare la prima pietra erano pochissimi».
presentazione buffon al parma 4
Nella finale con la Francia fu lei a far espellere Zidane per la testata a Materazzi.
«Richiamai l’attenzione dell’arbitro, perché temevo che Marco non si rialzasse. Avevo appena parato un colpo di testa di Zidane che pareva una sassata: per poco non mi piega la mano. Soltanto dopo trenta secondi ho realizzato, non lo nego, che l’espulsione dell’avversario più forte sarebbe stata un vantaggio».
Come ricorda l’Avvocato?
«La Juve aveva venduto Zidane al Real e investito duecento miliardi per me, Pavel Nedved e Lilian Thuram. Agnelli ci invitò a Villar Perosa. Ci accolse sorridendo: ecco i nostri miliardi che camminano! Dopo, forse vedendo Lilian, chiese cosa pensassimo del caso Milingo».
L’esorcista che aveva perso la testa per una donna, per poi chiedere perdono al Papa.
«Thuram, che è uomo di mondo, abbozzò una risposta. Nedved lo guardava allibito: palesemente non aveva mai sentito nominare Milingo in vita sua».
Qual è l’allenatore più forte che ha avuto?
«Sono stato fortunato. Ho avuto i sergenti: Scala, Capello, Conte. Quelli che scuotono i calciatori. E ho avuto gli psicologi, quelli che li calmano: Ancelotti, Allegri».
Mi faccia l’esempio di un sergente.
«Avevo fatto una partita strepitosa, una sequela pazzesca di parate, cadere rialzarsi, cadere rialzarsi. Capello mi convoca. Mi fa vedere il filmato della partita. E mi dice: Gigi, proprio non ci siamo. Ci rimasi malissimo».
E un esempio di psicologo?
«Abituati a Conte, che ci faceva cazziatoni terribili, Allegri ci parve un angelo. Alla vigilia di una partita, sulla lavagna degli schemi scrisse solo: 3. “Siete tre volte più forti degli avversari. Ora andate in campo e vincete”».
E Lippi che tipo era?
«Una via di mezzo. Dopo il fallimento ai Mondiali in Sudafrica ci disse: “La colpa non è vostra. La colpa è mia, che sono così coglione da aver portato ai Mondiali proprio voi”».
Ma chi tra loro è l’allenatore più forte?
«Ognuno è l’uomo giusto in un determinato momento. Quando ho saputo che Conte sarebbe andato al Napoli, ho detto: quest’anno il Napoli arriva o primo o secondo».
Cosa rispose Conte, quando lo avvisò che si era innamorato di Ilaria D’Amico?
«Un fuoriclasse sta con una fuoriclasse».
Come vi siete conosciuti?
«Dopo la partita con il Milan che decise lo scudetto del 2012, quella del gol non convalidato a Muntari, Ilaria mi fece una domanda capziosa: “Buffon, se si fosse accorto che la palla era entrata, l’avrebbe detto all’arbitro?”».
E lei?
«Non sono mai stato un ipocrita. Risposi che non mi ero accorto che la palla fosse entrata, e se me ne fossi accorto non credo che l’avrei detto. Scoppiò un putiferio».
Insomma, tra voi era iniziata male.
«Tempo dopo ci siamo trovati in un ospedale, a un evento di beneficenza. Abbiamo cominciato a parlare. E ho capito che la donna algida che vedevo in tv era in realtà dolcissima».
Lei stava con Alena Seredova.
«Era una storia ormai alla fine, attraversata da una crisi profonda. Ma mi ha dato un grande dolore farla soffrire, far soffrire i nostri figli, Louis Thomas e David Lee, che chiamo Dado. Oggi sono felice che Alena abbia un’altra famiglia: ha fatto una figlia, ha un uomo al suo fianco».
Alessandro Nasi.
«Credo che Alessandro abbia reso i miei figli persone migliori di come sarebbero stati se fossi rimasto a casa con le nostre infelicità; così come Ilaria ha fatto molto per i miei. Lei aveva già Pietro, insieme abbiamo avuto Leopoldo».
(...)
Ma un allenatore pippa l’ha avuto? Malesani?
«Guardi che con Malesani il Parma vinse Coppa Italia, Supercoppa e Coppa Uefa! Una volta ci raccontò la sua vita, il padre operaio, i sacrifici. Ci commosse. Tutti, anche quel matto di Tino Asprilla».
Com’era Asprilla?
«Uno che sparava in aria per festeggiare i compleanni degli amici; ma resta tra i più forti che abbia mai visto».
Lei crede in Dio?
«Molto, fin da ragazzo. A Parma andavo spesso a pregare nel Battistero, vivevo in collegio, sembravo un monaco. Ancora oggi vado a messa tutte le domeniche. Qui a Milano a San Nazaro».
Come immagina l’aldilà?
«Sarà una magnifica sorpresa».
gigi buffon pirlo DONNARUMMA BUFFON gigi buffon BUFFON