Francesco Poli per la Stampa
E’ passato mezzo secolo dalla prima personale di Roy Lichtenstein in Italia, organizzata da Gian Enzo Sperone alla Galleria Il Punto di Torino, di cui era allora direttore. E dunque l’ampia retrospettiva che si è inaugurata ieri alla Gam è anche, per caso, la celebrazione di questo particolare anniversario.
Ma i tempi sono decisamente cambiati: quell’arte pop che allora (in un periodo dominato ancora dalla soggettività pittorica informale) era apparsa come una provocatoria operazione di rottura, oggi è vista da tutti come addirittura «classica», e Lichtenstein è ormai un maestro che anche i ragazzini conoscono.
Ma già all’epoca era possibile capire chiaramente che, al di là dell’apparenza così clamorosamente antiartistica, l’intenzione dell’artista americano era quella di realizzare, attraverso procedure inedite, della pittura di vera qualità senza però mostrarne l’intenzione e cioè, come ha scritto Lawrence Alloway, fare delle opere d’arte originali che si spacciavano per delle copie.
E in effetti i lavori di Lichtenstein, a ben vedere, sono caratterizzati da un raffinato senso della forma e della composizione che emerge attraverso un’accurata selezione e elaborazione delle immagini che assumono un sorprendente valore estetico grazie allo straniamento prodotto dall’isolamento dal contesto normale, dalla variazione di scala e dalla collocazione negli spazi élitari delle gallerie, dei musei e delle case dei collezionisti. ?
I suoi quadri con Topolino, con gli eroi dei fumetti di guerra, con i volti piangenti delle bellezze stereotipate, con oggetti banali, più che essere una parodia colta dell’arte commerciale sono un’ironica operazione interna al linguaggio della pittura, in cui tecniche grafiche e codici iconici esterni diventano parte integrante di un vero e proprio stile che si confronta direttamente con l’arte alta.
Questo diventa più evidente quando, dopo il periodo dei suoi dipinti pop più famosi (che va dal 1962 al 1966, anche se con riprese e autocitazioni successive) inizia a sviluppare quella che è la parte più ampia della sua opera, e cioè una vasta e articolata rivisitazione degli artisti, delle dipinti, dei clichés stilistici della storia dell’arte del Novecento (Art Déco, Cubismo, Fauve, Futurismo, Purismo, Surrealismo e anche Action Painting).
Molto in sintesi si può dividere la sua produzione in tre fasi: quella strettamente pop negli Anni 60; quella con valenze postmoderne negli Anni 70/80, facendo riferimento in particolare ai numerosi d’après; e infine quella degli ultimi anni in cui l’artista, quasi come un pittore tradizionale, riprende (naturalmente a modo suo) i generi della natura morta, del nudo, e dei paesaggi alla maniera cinese.
In tutte queste fasi l’inconfondibile stile «fumettistico» di Lichtenstein (piatta cromaticità grafica, definizione netta e sintetica dei contorni lineari, puntini del retino tipografico) rimane più o meno costante, ma emergono con nitidezza gli aspetti fondamentali della sofisticata qualità non solo formale ma anche concettuale del suo linguaggio. ?
Tutto quanto si è detto può essere verificato in questa esposizione torinese, a cura di Danilo Eccher, ma da un punto di vista particolare e molto interessante. E questo perché la massima parte delle 256 opere esposte, che provengono dalla Fondazione Lichtenstein e da grandi musei americani, sono disegni, studi, bozzetti, collage, di piccole medie e grandi misure, che documentano in modo puntuale tutti gli straordinari sviluppi della sua ricerca, compresa la stagione pre-pop un po’ surrealista e espressionista.
Ci sono anche alcuni grandi dipinti (come per esempio una magnifica tela rovesciata del 1968, una variazione su Picasso del 1984, e un paesaggio ispirato da Hokusai del 1996) che servono soprattutto per dimostrare la mirabile coerenza del processo di invenzione e costruzione delle composizioni con il risultato finale delle tele dipinte con colori a olio e acrilici. ?
Il bello è che gran parte dei soggetti e temi dei quadri più famosi si ritrovano puntualmente nei disegni e nei collage, in forma già ben chiara, anche se ancora sintetica e abbozzata, e con il pregio specifico di trasmettere tutta la freschezza dell’invenzione allo stato iniziale o intermedio.
Nelle vari parti del percorso, allestito in modo cronologico e tematico, saltano fuori i Mikey Mouse; le tazze di caffè e coni di gelati in bianco e nero; i «knock knock» e le esplosioni deflagranti tipici delle strip; i primi piani dell’aviatore che sfida il nemico e quello della bella angosciata al telefono («Oh Jeff I love you too but…»); i radianti tramonti di un sole di plastica; i colpi di pennello espressionisti congelati; le rovine di templi classici; le composizioni cubiste puriste e surrealiste alla Dalì ironicamente reinventate; e gli omaggi ai pesciolini rossi e ai nudi di Matisse (artista che ha influenzato Lichtenstein anche per quello che riguarda la tecnica del collage con elementi ritagliati). Insomma, come ha dichiarato l’artista: «Tutto viene pensato nei disegni e compiuto nei dipinti».