1 – LA GARA E GLI ACCORDI, CO M’È NATO DAVVERO IL DISASTRO DI TARANTO
Estratto dell’articolo di Carlo Di Foggia per “il Fatto quotidiano”
Se, come si dice in Toscana, la colpa morì fanciulla perché nessuno la volle, quella sul disastro dell’ilva ognuno la dà agli altri. Ieri in Senato il ministro delle Imprese Adolfo Urso l’ha distribuita tra Arcelor Mittal, colpevole di non aver “mantenuto nulla di quello che era programmato, in spregio agli accordi sottoscritti con lo Stato”; Carlo Calenda, che nel 2017 gestì la gara che ha assegnato il siderurgico tarantino al colosso franco-indiano, ma soprattutto il governo Conte-2 per i patti “leonini”, “scellerati” e “fortemente sbilanciati” firmati con Mittal nel 2020 che oggi a suo dire legano le mani al governo. “Vengano subito resi noti”, ha tuonato Calenda.
Toccherà agli storici spiegare come l’italia abbia perso la più grande acciaieria d’europa senza prendere una decisione definitiva in 12 anni, da quando la Procura di Taranto sequestrò gli impianti per il disastro ambientale perpetuato dai Riva dando vita a una girandola di decreti “salva Ilva”. Ma se la privatizzazione oscena del 2005, un regalo di Berlusconi all’amico Emilio Riva, ha posto le basi per la vicenda giudiziaria, è la fantozziana gara del 2017 all’origine del colpo di grazia a cui si assiste oggi anche grazie al dilettantismo di Meloni e soci.
Nel 2017 il governo Gentiloni, Calenda ministro, ha messo in vendita Ilva al miglior offerente, come se non fosse un impianto da 20 mila dipendenti e una città a pagarne il tributo di vite. E si capisce perché. Lo Stato riesce nell’impresa di perdere una gara indetta dallo Stato, partecipando, tramite Cassa depositi e prestiti, alla cordata “Acciaitalia” con gli indiani di Jindal, Delfin (la cassaforte di Leonardo Del Vecchio) e l’acciaierie Arvedi contro quella composta da Arcelormittal col gruppo Marcegaglia (“Am Investco”).
Il piano industriale-ambientale di Mittal viene stroncato dagli stessi tecnici di Calenda (“Conteneva errori da matita blu”, ricorda chi allora seguì il dossier) che promuovono quello di Acciaitalia, che però offre di meno. Calenda decide che non c’è spazio per accettare i rilanci avanzati da Delfin e Jindal, trincerandosi dietro il rischio di contenziosi, e affida Ilva a Mittal.
Due anni dopo l’autorità anticorruzione lo smentirà clamorosamente, accertando che la gestione di quella gara (che gara non era) è stata irregolare e i rilanci non solo erano possibili ma auspicabili. Basta un dato su tutti: l’ad della cordata pubblica, Lucia Morselli, dopo aver accusato di opacità tutta la procedura, nel 2019 viene ingaggiata dai rivali di Mittal per fare la guerra allo Stato.
Quella vendita è soprattutto un disastro strategico: Calenda consegna Ilva a un concorrente diretto in un momento di sovracapacità produttiva. Tradotto: Taranto sarebbe diventata un cuscinetto produttivo da fermare nel caso, certo non per investirci. Lo sapevano tutti. “Secondo i più, Mittal aveva fatto quell’investimento non per rilanciare l’impianto, ma per evitare che potesse rappresentare una concorrenza dall’italia in Europa”, ha detto Urso. È andata proprio così.
La decisione parlamentare di eliminare lo scudo penale per i vertici (non previsto nel contratto del 2017, né posto come condizione essenziale dal colosso, che pensava sarebbe scaduto a marzo 2019, peraltro oggi ripristinato) ha dato il pretesto a Mittal per scatenare la guerra allo Stato finita con gli accordi di dicembre 2020 e l’ingresso di Invitalia in Acciaierie d’italia.
Sotto schiaffo, il governo Conte investe 400 milioni per rilevare il 38% di Adi ed esprimere un presidente senza poteri, mentre l’ad e la maggioranza spettano a Mittal, come ha ricordato Urso omettendo però un dettaglio. Gli accordi prevedevano che la governance si sarebbe invertita a maggio 2022: Invitalia avrebbe espresso l’ad iniettando 680 milioni nel capitale e salendo in maggioranza. L’accordo era però vincolato a una nuova Autorizzazione integrata ambientale e al dissequestro degli impianti, condizioni che non si sono realizzate. […]
2 – ILVA, COSÌ CONTE HA SVENDUTO AGLI INDIANI
Estratto dell’articolo di Sofia Fraschini per “il Giornale”
GIUSEPPE CONTE CON LAKSHMI MITTAL
Il ministro per il Made in Italy Adolfo Urso svela i contenuti del patto leonino sull'ex Ilva siglato nel 2020 dall'allora governo Conte 2 con il socio privato Arcelor Mittal e tenta di farne carta straccia con «un intervento drastico che segni una svolta netta rispetto alle vicende per nulla esaltanti degli ultimi 10 anni». […]
«Siamo in un momento decisivo che richiama tutti al senso di responsabilità. Nessuno degli impegni presi è stato mantenuto dal socio privato in merito all'occupazione e al rilancio industriale. Dobbiamo invertire la rotta cambiando equipaggio dell'ex Ilva di Taranto», ha detto il ministro in Aula garantendo una «ricostruzione l'ex Ilva competitiva sulla tecnologia green su cui già sono impegnate le acciaierie italiane, prime in Europa».
Un passaggio preceduto dalla rivelazione di alcuni importanti dettagli del contratto siglato nel 2020 e che ha regolato fino a oggi in modo fortemente sbilanciato i rapporti tra i soci di AdI (ex Ilva): Arcelor Mittal al 62% e Invitalia al 38%.
Tutto inizia nel luglio del 2019 quando l'allora ministro per lo Sviluppo economico Luigi Di Maio revoca lo scudo penale, ovvero quella norma che garantiva (ai nuovi soci) la non punibilità per reati compiuti da altri a Taranto (reati di natura ambientale, ndr).
STEFANO PATUANELLI GIUSEPPE CONTE ROBERTO GUALTIERI CON LAKSHMI E ADITYA MITTAL
«La decisione sulla rimozione dello scudo penale pose ArcelorMittal in una posizione di forza nei confronti del governo», spiega Urso. «E di fronte alla minaccia di abbandonare il sito e in assenza di alternative, nel marzo 2020 il governo Conte 2, ministro Patuanelli, avvia una nuova trattativa con gli investitori franco-indiani da cui nascerà Acciaierie d'Italia con l'ingresso di Invitalia al 38% e con la sigla di patti parasociali fortemente sbilanciati a favore del soggetto privato. Patti che definire leonini è un eufemismo - precisa Urso Nessuno che abbia cura dell'interesse nazionale avrebbe mai sottoscritto quel tipo di accordo. Nessuno che abbia conoscenze delle dinamiche industriali avrebbe accettato mai quelle condizioni».
Urso svela come al socio privato fosse riservato il voto decisivo su sette materie su otto e che, secondo gli accordi, anche a maggio 2024 con la prevista salita in maggioranza dello Stato quest'ultimo non potesse nominare un amministratore di propria fiducia o vendere più del 9%. Un'eventuale compravendita poteva essere completata solo con soci esclusivamente finanziari e non appartenenti al settore dell'acciaio. […]
EMILIO RIVA lucia morselli lakshmi narayan mittal