Estratto dell’articolo di Riccardo Sorrentino per “Il Sole 24 Ore”
È in vigore da ieri, in molti Paesi. È la Global minimum tax, l’imposta sulle multinazionali che punta a ridimensionare il fenomeno dell’arbitraggio fiscale: la scelta del paese più conveniente in cui collocare la holding.
Anche l’Italia è nel gruppetto dei primi, insieme alla Francia, alla Germania, alla Spagna, alla Gran Bretagna, Canada, Norvegia, Australia, Corea del Sud, Giappone e Svizzera. I Paesi dell’Unione europea si sono impegnati tutti a far entrare in vigore le nuove regole ieri anche se alcuni di essi - i più piccoli, nei quali hanno sede meno di dodici multinazionali soggette al nuovo regime - possono aspettare altri sei anni.
A regime, la nuova imposta dovrebbe far aumentare le entrate fiscali globali di 220 miliardi di dollari, in base a un calcolo dell’Ocse, l’Organizzazione dei paesi ricchi che ha ospitato le trattative per l’accordo internazionale che ha introdotto la nuova imposta, anche se non mancano stime meno generose.
Ogni Paese firmatario si è impegnato ad applicare un’aliquota del 15% sui profitti generati dalle multinazionali con più di 750 milioni di dollari di ricavi annui.
In alcune nazioni come l’Irlanda, il Lussemburgo, l’Olanda, le imposte sulle multinazionali sono state finora molto basse e hanno incentivato - soprattutto Irlanda e Lussemburgo - l’apertura di holding e “quartier generali” ai quali venivano spesso attribuiti, soprattutto nel caso di gruppi attivi online, anche i ricavi realizzati in altre nazioni. […]
La Svizzera, dove l’imposta è applicata da ieri, ha dovuto modificare la propria costituzione - con un voto referendario - per poter recepire l’intesa internazionale. Proprio qui sono emersi i primi limiti dell’accordo: restano in vigore trattamenti di favore per le holding, relative a dividendi e capital gain.
Analogamente dovrebbero restare in vigore, un po’ dappertutto, forme di crediti fiscali. Le norme, insomma, riducono ma non eliminano il fenomeno della concorrenza fiscale tra le nazioni. La stessa intesa prevede in via generale deroghe per le multinazionali che realizzino investimenti diretti, non strettamente finanziari, per non disincentivarli.
GLOBAL MINIMUM TAX - ALIQUOTA DEL 15%
Anche per questo motivo la nuova imposta potrebbe anche avere alcune conseguenze non desiderate: una corsa ai sussidi per gli investimenti diretti, oltre un forte aumento della burocrazia e del contenzioso fiscale.
L’intesa è stata firmata da 140 paesi ma almeno due grandi firmatari, gli Stati Uniti - che potrebbero perdere entrate fiscali in base alle nuove regole - e la Cina, non hanno ancora recepito le norme nel loro ordinamento. Pochi hanno negato la firma - Nigeria, Sri Lanka, Kenya - mentre il Pakistan si è ritirato dopo averla concessa.
FATTURATO E TASSE AZIENDE BIG TECH
L’intesa prevede due pilastri. Il primo è relativo a una “redistribuzione” formale di una parte dei profitti in base alla nazionalità dei consumatori, per ovviare ai problemi generati dagli acquisti online, tutti attribuiti alla casa madre. Viene applicato però soltanto ai gruppi con ricavi globali superiori a 20 miliardi (che potranno scendere a 10 miliardi in dieci anni) e con una redditività di almeno il 10%.
Il secondo pilastro è la global minimum corporate tax del 15% in senso stretto che viene imposta alle holding se hanno sede in un paese che applica l’intesa e alle sussidiarie se la holding ha invece sede in paesi che non firmatari o che non rispettano l’accordo: in questo caso, il paese inadempiente perde in tutto o in parte il diritto di tassare la casa madre del gruppo multinazionale.
L’importanza di uniformare il trattamento fiscale delle multinazionali è avvertita da tempo: già nel ’92 l’Unione europea aveva studiato un’intesa che poneva il livello minimo tra il 30% e il 40%. È dal 2019, però, che l’Ocse ha iniziato a proporre in modo politicamente incisivo un accordo a livello globale […]
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