INDUSTRIALI ALLA DE-RIVA - EMILIO RIVA, AVVELENATORE O AVVELENATO? - IL GRANDE VECCHIO DELL'ACCIAIO ITALIANO O L’ULTINO PADRONE DELLE FERRIERE? IL BOSS DELL’ILVA VISTA DA DESTRA E DA SINISTRA…

1. ADDIO A EMILIO RIVA, IL "RAGIUNATT" DELL'ILVA TUTTO ACCIAIO E VELENI
Teodoro Chiarelli per ‘La Stampa'

Era l'ultimo grande vecchio dell'acciaio italiano. E se n'è andato con un enorme rammarico: non essere riuscito a difendersi dalle accuse infamanti che gli sono piovute addosso per le vicende legate all'Ilva di Taranto, il colosso siderurgico al centro delle inchieste della magistratura per inquinamento e reati finanziari. Emilio Riva, il «ragiunatt», milanese da generazioni, era un imprenditore discusso e controverso, spregiudicato e fors'anche cinico.

Un industriale vecchio stampo, che incarnava lo stereotipo del «padrone delle ferriere». Sopravvissuto ad altre due grandi figure dell'acciaio: il bresciano, re del tondino, Luigi Lucchini, e il mantovano Steno Marcegaglia, che da sindacalista si era fatto padrone fino a creare una multinazionale dei tubi.

Eppure, ruvido nei rapporti sindacali e istituzionali, Riva era a modo suo legato ai propri operai. Si vantava: «Ho sempre aperto e comprato fabbriche e non ne ho mai chiusa una». Era diventato il quarto produttore in Europa e il decimo nel mondo, 11 miliardi di euro di ricavi (prima del blitz della magistratura) e 24 mila dipendenti. Da una parte l'Ilva, rilevata a un prezzaccio dallo Stato, l'Iri di Romano Prodi, con i suoi altoforni per i «prodotti piani» (oltre a Taranto, stabilimenti a Genova e Novi Ligure). Dall'altra, la Riva Acciaio e le holding estere (impianti in Spagna, Germania, Francia, Belgio, Canada e Tunisia) specializzate nei «prodotti lunghi» da forno elettrico.

Un uomo tutto d'un pezzo, un duro, un padrone d'altri tempi, il Riva ragionier Emilio. Non si sa come abbia reagito nel luglio del 2012 alla notifica degli arresti domiciliari disposti per lui, classe 1926, dal gip di Taranto. Però a Caronno Pertusella (Varese), dove nel 1957 costruì il suo primo stabilimento siderurgico, ricordano ancora quel che disse mentre lo arrestavano nel 1975, accusato di omicidio colposo per un incidente sul lavoro: «Finchè non esco io, la fabbrica resta chiusa e senza lavoro». E così fu.

«Io non sono un capitalista, ma un imprenditore industriale - ha detto in una delle sue rare interviste - I capitalisti comprano le aziende, le risanano, le rivendono. Vanno in Borsa. Speculano. Io sono diverso. Sono un datore di lavoro». Nei posti di comando del gruppo fondato insieme al fratello Adriano solo figli e nipoti: il primogenito Fabio, 60 anni, delfino designato, i fratelli Claudio, Nicola e Daniele (avuto dalla seconda moglie, una principessa etiope), i nipoti Cesare e Angelo. Manager svezzati dall'Emilio, stessi metodi, uguale grinta. Tutti finiti nel tritacarne delle inchieste, con Fabio inseguito da un mandato di cattura a Londra.

Poco incline ai salotti, Riva non mancava però di frequentare, con discrezione, Silvio Berlusconi. Tanto da rispondere fra i primi alla chiamata dei «patrioti» in cordata per l'Alitalia. In cambio però, sostengono le accuse, della libertà di azione a Taranto: impianti spremuti e scarsi investimenti per ridurre l'inquinamento dell'Ilva sulla città. Il vecchio patriarca preferiva ricevere i pochi amici (come Giorgio Fossa o Cesare Romiti) a casa propria, mettendosi lui stesso dietro ai fornelli e cucinando strepitosi risotti. Dicono che sino alla fine tenesse i numeri principali del gruppo in un libriccino nero che portava sempre con sé: produzione, venduto, guadagni.

Una saga, quella dei Riva, iniziata nel dopoguerra, quando il giovane Emilio, figlio di un commerciante di rottame, si comprò un vecchio Dodge americano per raccogliere e distribuire il rottame alle nuove imprese elettrosiderurgiche della pianura padana. Poi arriverà il primo stabilimento di Caronno Pertusella. Senza di lui il destino del gruppo è ancora più denso di incognite. L'Ilva è commissariata, servono almeno 4 miliardi di investimenti.

La famiglia Riva, senza il collante del vecchio leone Emilio, è divisa: gettare la spugna o proseguire, magari con un partner estero? E alla fine, il «ragiunatt dell'acciaio» verrà ricordato come un padrone spregiudicato che ha guadagnato sulla pelle degli abitanti di Taranto, o come un importante industriale, con le sue ombre ma anche le sue luci? Antonio Gozzi, presidente di Federacciai, non ha dubbi. «Con Riva abbiamo perso un grande imprenditore, un vero capitano d'industria».

2. COSÌ I VELENI DEI TRIBUNALI HANNO UCCISO RIVA
Stefano Lorenzetto per ‘Il Giornale'

Di Emilio Riva, morto nel¬la notte di ieri in una cli¬nica che da un paio di mesi poteva sommini¬strargli solo cure palliative, si di¬rà che era giunta la sua ora: il 22 giugno avrebbe compiuto 88 an¬ni. In realtà il magnate dell'accia¬io era morto il 26 luglio 2012, quando un'ordinanza del giudi¬ce per le indagini preliminari di Taranto lo aveva confinato agli arresti domiciliari nella sua villa di Malnate (Varese). A parte due ricoveri di pochi giorni nel cen¬tro cardiologico Monzino di Mi¬lano, resi urgenti dal cuore ma¬landato, poté uscirne solo dopo un anno, per scadenza dei termi¬ni di custodia cautelare. Ma non da uomo libero: lo stesso Gip gli impose l'obbligo di dimora.

Il suo male incurabile è stato il sequestro dell'Ilva di Taranto, che Riva aveva salvato dal falli¬men¬to e trasformato nella più im¬portante acciaieria del continen¬te, sostituendosi allo Stato in se¬guito alla liquidazione dell'Italsi¬der. Il tumore osseo che ha con¬sumato l'imprenditore milane¬se¬si era manifestato all'avvio del¬l'inchiesta per disastro ambien¬tale dalla quale sarebbe uscito senza condanne epperò cadave¬re. La caduta delle difese immu¬nitarie sopravviene quando il do¬lore diventa troppo pesante per essere sopportato anche da chi abbia spalle larghe come le sue. Sono gli effetti della privazione di ciò che per un essere umano con¬ta di più: la libertà personale.

Poiché si deve presumere che nella vicenda giudiziaria di Riva tutto si sia svolto secondo i crismi di legge, e tenuto conto del fatto che l'ultimo scorcio della sua vita è stato dominato per intero dai magistrati, si può ben conclude¬re che egli sia morto per un ecces¬so di giustizia. Un po' come ac¬cadde ad Alessandro Magno, del quale fu detto che perì grazie al¬l'aiuto di troppi medici.

Il paragone storico non sembri inappropriato. Al di là dell'infa¬me vulgata che ha tramutato l'ex rottamaio in un assassino d'iner¬mi cittadini per sete di guada¬gno, l'ex «ragiunatt» con laurea ad honorem in ingegneria mec¬cani¬ca era davvero l'ultimo con¬dottiero della siderurgia italiana.

Il più grande: 38 stabilimenti nel mondo, 30.000 dipendenti, 10 miliardi di euro di fatturato. Fa¬cendo onore al proprio caratte¬re, forgiato con lo stesso materia¬le che gli diede fama, ricchezza e tormento, ha resistito qualche mese più dei colleghi Luigi Luc¬chini e Steno Marcegaglia, usciti di scena tra effluvi d'incenso.

L'anno scorso, ormai prigio¬niero da dieci mesi in casa pro¬pria, Riva si rese conto che niente avrebbe più potuto riportare in parità la bilancia della giustizia e restituirgli l'onore perduto. Non i suoi avvocati, pur abilissimi. Non i giornali, abituati a trattarlo con la simpatia che circondava i monatti di manzoniana memo¬ria. Né tantomeno, figurarsi, le to¬ghe. Poiché avvertiva che il suo tempo stava per compiersi,pen¬sò a un j'accuse zeppo di fatti e di dati, che potesse riabilitarlo nel¬la memoria degli eredi. Un libro. Si ricordò allora di un giornalista che lo aveva intervistato 11 anni prima sul Giornale . Il 21 maggio volle che incontrassi la moglie, Giuliana Du Lac Capet, nella sua casa milanese di via Verri.
Allena¬ta dal consorte ad andare subito al nocciolo delle questioni, la si¬gnora mi chiese: «È impegnato domenica prossima? La accom¬pagnerei a Malnate da mio mari¬to, così potrebbe cominciare su¬bito a raccogliere la sua verità. Non c'è tempo da perdere». Fui costretto a obiettarle che,avvici¬nando un estraneo senza l'auto¬rizzazione del magistrato, egli si sarebbe reso responsabile di eva¬sione. Non solo: io avrei potuto essere inquisito per concorso nel medesimo reato. Si trattava di un rischio che ero disposto a correre. Ma il suo legale temeva che Riva finisse ristretto a San Vit¬tore. L'anziano recluso dovette perciò accantonare il progetto editoriale a lungo accarezzato e che aveva già trovato un editore. Anche l'ultima possibilità di au¬todifesa gli veniva negata.

Dunque è così che è morto Ri¬va: senza voce. Sarebbe stato in¬vece interessante, oltreché giu¬sto, fargli commentare il rappor¬to di Legambiente, nemica giura¬ta dell'Ilva, dal quale nel 2012, in piena bufera giudiziaria, risulta¬va che, su 55 capoluoghi di pro¬vincia presi in esame, Taranto fi¬guravaal 46˚ postonella classif¬i-canazionaledell'inquinamento da polveri sottili, preceduta da Torino,Milano,Verona,Alessan¬dria, Monza e altre 40 città. Oppu¬re farlo parlare di quel procurato¬re capo della Repubblica di Ta¬ranto che aveva scritto con largo anticipo come sarebbe andata a finire questa brutta storia: «Con la vittoria del bene sul male».

Do¬ve il bene erano i giudici e il male Riva. Una sentenza contenuta nella prefazione di un libro per bambini, nel quale si raccontava che nella città pugliese, per colpa dell'Ilva,«il cielo era sempre scu¬ro e la gente si ammalava», ma poi arrivava un dio che tuonava: «Adesso basta!». E giurava: «Col mio soffio spegnerò le ciminiere, porterò via i fumi e manderò a ca¬sa gli uomini d'acciaio! ». Promes¬sa mantenuta: prima a casa e da lì direttamente al cimitero.

A Emilio Riva non hanno porta¬to bene né l'avversione per il co¬munismo, che tuttavia non gl'im¬pedì di acquisire e far ripartire due cadenti acciaierie dell'ex Ddr dove al suo arrivo trovò un presidio di militari dell'Armata rossa, né il munifico obolo di San Pietro che per anni, in gran segre¬to, versò direttamente nelle ma¬ni di Pap¬a Wojtyla per consentir¬gli di pagarsi i suoi viaggi apostoli¬ci nei cinque continenti. Chissà che il custode delle chiavi decus¬sate non gli abbia adesso dischiu¬so, dopo tanta prigionia domesti¬ca, almeno le porte di quel para¬diso nel quale ha sempre spera¬to. Un risarcimento postumo che l'industriale siderurgico non poteva aspettarsi dalla giustizia umana, ma solo da un santo fre¬sco di canonizzazione.

 

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