UNA VITA TRA LE SBARRE: DOPO 49 ANNI TORNA IN LIBERTÀ IL RECLUSO PIÙ LONGEVO D’ITALIA - ARRESTATO LA PRIMA VOLTA PER UN FURTO DI MELANZANE E PEPERONI, IN GALERA HA COMMESSO DUE OMICIDI CONTROVERSI
Laura Anello per “La Stampa”
Era il 31 gennaio del 1965 quando entrò in carcere per la prima volta per un furto di melanzane e peperoni, di una bicicletta e di una Motom 48, una moto che oggi è roba per collezionisti. La rubò - racconta - «per andare a lavorare come manovale, non l’avessi mai fatto». Il presidente della Repubblica era Giuseppe Saragat, s’inaugurava il traforo del Monte Bianco e i Beatles arrivavano in Italia.
Ora, dopo 49 anni, due omicidi, due tentati omicidi e una condanna all’ergastolo, Antonino Marano, il detenuto più longevo della storia d’Italia per reati commessi in carcere, ha ottenuto la libertà dal Tribunale di sorveglianza di Torino e si è riaffacciato al mondo. «Un mondo che non riconosco - racconta - non ci sono più le botteghe e ai supermercati non trovo l’uscita, le bambine di cinque anni ora sono donne di cinquanta, mi sono ritrovato tanti ragazzi che mi chiamano nonno».
È tornato in provincia di Catania dove era cominciata la sua storia che sembra uscita da un romanzo di Verga: terzo di cinque figli, padre bracciante, madre casalinga, una casa «che puzzava di fame». Non ha neanche un avvocato quando un giudice si occupa per la prima volta di lui: i furti vengono considerati «in continuazione», fanno cumulo, e lui si ritrova con una condanna a quasi 11 anni.
Tra scarcerazioni per scadenza di termini e condanne definitive che lo fanno tornare in cella, nel 1971 si presenta spontaneamente dai carabinieri di Giarre per scontare gli ultimi 16 mesi. Ma il 13 giugno del 1973, varcando la soglia del penitenziario, imbocca un tunnel che è finito solo adesso, quasi mezzo secolo dopo. Marano è il recordman delle patrie galere, che ha girato da Nord a Sud: Pianosa, Voghera, Termini Imerese, Catania, Alghero, Porto Azzurro, spesso nelle sezioni di alta sicurezza.
Mezzo secolo in cui è stato coinvolto nelle risse, nelle vendette, nelle rivolte a colpi di coltello degli Anni 70 e 80. Nell’ottobre del 1975 il primo delitto nel carcere di Catania «per difendere mio fratello da un accoltellamento», poi due tentati omicidi nel marzo e nel giugno del 1976, un altro delitto nel luglio 1976 «contro un disgraziato che aveva violentato un ragazzino in cella tutta la notte».
Per i giudici un temibile «killer delle carceri», per i volontari che negli ultimi 20 anni hanno lottato per tirarlo fuori, una sorta di sfortunato Forrest Gump, sempre tirato in ballo perché cane sciolto e senza difese. «Anni in cui il motto mors tua, vita mea era la regola», dice Giovanna Gioia, la volontaria dell’associazione Asvope che di lui azzarda raccontare «la ricchezza interiore inaspettata, fatta di dignità e orgoglio».
Fu lei, professoressa in carcere, a credere per la prima volta in quell’uomo nei pomeriggi passati a studiare al corso per la licenza media: «Mi disse: guardi che io sono una persona perbene. Io gli risposi: lo lasci decidere a me». A ogni emergenza, a ogni sequestro, a ogni delitto, viene fuori il nome di Marano. Le Br, il sequestro Soffiantini, persino il caso Tortora.
Nel 1976 scoppia una grande rivolta nel carcere di Catania e vengono uccisi due detenuti. Lui finisce indagato e poi prosciolto. Ma nel 1987 è un collaboratore di giustizia a fare il suo nome per quell’episodio. «Mi restavano due anni da scontare - racconta - e mi piombò addosso l’ergastolo, mi appiopparono anche l’associazione a delinquere di tipo mafioso».
Da allora si è messo a dipingere, tripudi di madonne e di angeli, «perché mentre pensavo di morire di dolore in cella mi sono ricordato delle preghiere di quando ero piccolo. E sono stato ascoltato».