mozart pappano bartoli

SANTA CECILIA CANTA PER NOI – MATTIOLI: ‘’LA BARTOLI POSSIEDE QUELL’INDEFINIBILE QUID CHE TRASFORMA UN CONCERTO IN UN ONE WOMAN SHOW - BRAVO PAPPANO A NON FARSI SCHIACCIARE E L’ORCHESTRA SI CONFERMA A OGNI ASCOLTO LA MIGLIORE IN ITALIA E UNA DELLE MIGLIORI D’EUROPA’’

Alberto Mattioli per La Stampa

 

MOZARTMOZART

Iniziamo dalle cose serie: gli abiti. Allora, venerdì, per il Gala Mozart all’Auditorium di Roma, due toilettes: un tailleur pantalone maschile con tre camicione a balze effetto Settecento (prima blu, poi bianca e infine rossa) e un vestito verde con gonna molto ampia, anche questo vagamente dixhuitième, ma decisamente femminile.

 

Il primo, indossato per cantare il mottetto «Exultate, jubilate» e la prima aria di Sesto dalla «Clemenza di Tito», cioè due brani scritti per castrati. Il secondo, per il recitativo e rondò «Ch’io mi scordi di te», meravigliosa aria da concerto scritta per Nancy Storace, anzi, come Amadé nota nel suo catalogo personale, «per M.lle Storace e per me», dato che l’Autore si riservò un bellissimo obbligato di pianoforte. 

 

Bartoli e Pappano Bartoli e Pappano

Ecco una primadonna che fa della filologia quando si veste, e figuriamoci quando canta. Ma Cecilia Bartoli è così: non lascia nulla al caso. In più, ha quell’indefinibile quid che trasforma un concerto in un one woman show. Fatto sta che basta che entri, saluti, ammicchi, canti tre note e si è già messa il pubblico in tasca. Si chiama carisma, e potremmo anche chiuderla lì. Del resto, le ovazioni e i bouquet di fiori e le urla e insomma tutto l’atteso tripudio parlano da soli. 

 

Bartoli e Pappano 0f055514Bartoli e Pappano 0f055514

Smaltita l’emozione, però, bisogna anche ragionare un po’ su questo strano concerto per diva, Coro e Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia diretti da sir Antonio Pappano nel 261esimo compleanno del Nostro, con un programma spezzatino tutto pezzetti e pezzettini, arie da opere, estratti di musica sacra, singoli movimenti di sinfonie e concerti, quasi da «accademia» dell’epoca o da «greatest hits» discografiche.  

 

La Bartoli è ancora la Bartoli. Il volume, si sa, non è mai stato il suo forte e attualmente (anche dopo un’«Alcina» ascoltata a Zurigo all’inizio dell’anno) si è forse anche affievolito, benché poi la voce sia proiettata così bene da «correre» anche in una sala non piccola come quella di Roma. Aggiungerei una certa cautela nel salire agli acuti, mentre le agilità in tempi rapidi sono tuttora spericolate e fulminanti, gli effetti d’eco bellissimi, il fraseggio sempre fantasioso, la musicalità eccezionale. 

 

PAPPANO BARTOLIPAPPANO BARTOLI

Ma, soprattutto, la Bartoli non ha perso, anzi se possibile ha ancora affinato, la più intrigante (e meno italiana, il che spiega forse perché paradossalmente in Italia piaccia meno che nel resto del mondo) delle sue qualità: la bravura nel giocare con il colore della voce. Non si tratta solo della dinamica amplissima, dal forte al pianissimo e ritorno.

 

Il punto è che la Bartoli è capace di inventarsi un suono diverso per ogni nota e per ogni parola, dando loro un’espressività del tutto insolita. È difficile da spiegare, ma si può fare un esempio per tutti: nel recitativo del mottetto, alla frase «et jucundi aurorae fortunatae» superCecilia s’inventa improvvisamente un pianissimo che non è solo etereo, ma magicamente cambia il colore della voce e prende così un sapore arcadico e solare, stupendo.

CECILIA BARTOLI CECILIA BARTOLI

 

Ora, questo davvero si chiama «recitar cantando», tutto sulla parola, tutto al servizio del teatro (Mozart fa teatro anche in chiesa) e ci riporta alle origini dell’opera e al perché la amiamo. Certo, il confine con il birignao è molto vicino, però la Bartoli non lo varca mai. Il suo è un gusto carico, giustamente melodrammatico, ma non è cattivo gusto. Dà a ogni sua interpretazione un’intensità particolare. E spiega perché la fama planetaria sia meritata e perché ogni sua apparizione diventi un evento. 

 

ALBERTO MATTIOLI  400ALBERTO MATTIOLI 400

Quanto al resto, bravo Pappano a non farsi schiacciare, a dirigere una sinfonia «Parigi» energetica come uno zabaione appena sbattuto e anche a suonare il ricordato obbligato di pianoforte (con un cantabile giustamente già preromantico: siamo nel 1786, e il giovane Werther non era giù più giovane). Coro splendido con un «Ave Verum» da antologia.

 

Quanto a Santa Cecilia, intendo l’altra, l’orchestra, si conferma a ogni ascolto la migliore in Italia e una delle migliori d’Europa. A parte il flauto di Carlo Tamponi e l’arpa di Cinzia Maurixio, inappuntabili nell’andantino del K299, chapeau al primo violino Roberto González-Monjas: trascinante. 

 

 

 

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