"QUI IN AMERICA IO PORTO UN ITALIANO DIVERSO DAL 'GABAGOOL' E DAI SOPRANOS" - IL "SOGNO AMERICANO" DI FRANCESCO DE CARLO, IL PRIMO COMICO ITALIANO A ESIBIRSI AL LEGGENDARIO "COMEDY CELLAR" DI NEW YORK: "SONO CRESCIUTO NEL LIMBO. DA UNA PARTE MONTEVERDE VECCHIO, DALL’ALTRA LA MAGLIANA; NANNI MORETTI CONTRO IL LIBANESE. 'PIJAMOSE ’N PROZAC' CONTRO 'PIJAMOSE ROMA'" - "NEW YORK, VOCE DEI PROGRESSISTI E PIANETA ALIENO RISPETTO AL RESTO DEL PAESE, STA MUTANDO. L’AMERICA VERA È ARRIVATA FIN QUA, NON È RARO TROVARE SOSTENITORI DI TRUMP. IN ITALIA…"
Estratto dell'articolo di Filippo Brunamonti per "la Repubblica"
«Sono cresciuto nel limbo. Roma, da una parte Monteverde Vecchio, dall’altra la Magliana; da un lato Nanni Moretti, dall’altro il Libanese. “Pijamose ’n Prozac” contro “Pijamose Roma”». Francesco De Carlo, nato nella capitale nel 1979, ha gli occhi arrossati di jet lag e luci al neon. Le sue battute, in inglese con accento romano, stanno portando scompiglio al Village. «È tempo di prendersi New York».
A quel limbo autobiografico, il comico ha dedicato uno spettacolo (tutto esaurito). Ora dovrà infilarci un detour d’eccezione: il Comedy Cellar. È il primo italiano a esibirsi regolarmente nella “Harvard dei comedy club”. […]
De Carlo, l’agenda della booker Estee Adoram, “guardiana” del Cellar da quarant’anni, è fitta di nomi di comici. Tutti in attesa di essere chiamati e svoltare.
«Per un comico, il Comedy Cellar è il centro del mondo. Nonostante le sale siano piccole, massimo duecento posti, la paura di giocarsi ogni carta sopra quel palco non l’ho provata nemmeno a teatro, di fronte a quattromila persone. Ci sono tantissimi italoamericani — da Sebastian Maniscalco a Sal Vulcano — e li seguo con passione. Però non sono nati e cresciuti a Roma. Il quartiere non lo lasci mai e il quartiere non ti lascia mai. Io porto un italiano diverso dal gabagool (capocollo) e dai Sopranos ».
[…] Prima di esibirsi al Cellar, che rapporto aveva con la comicità americana?
«L’umorismo americano viaggia veloce. Noi rimaniamo al “Nord contro Sud”. Quando si scrive un nuovo show, in certi giri sento ancora parlare di Quelli della notte o Indietro tutta . La nostalgia mi distrugge».
Da dove ha iniziato?
«Da un programma di scherzi al telefono per Radio Globo, a Roma. Si chiamava Chiamata a carico . Sono passato dal Parlamento europeo — ufficio stampa dall’inglese sbeccato — al tormentare persone a caso. Poi l’estero: Edinburgh Fringe Festival, Soho Theatre a Londra… Oltreoceano sto tentando di crearmi una comunità di comici. Primo tra tutti, il fenomeno Matteo Lane, discendenza italiana. Siamo passati da cinquanta posti — vuoti — in una libreria romana al grande botto alla Carnegie Hall. Ad aprile aprirò uno spettacolo di Matteo a Radio City: seimila posti».
Hai mai considerato la cancel culture come un freno?
«Non necessariamente. La città di New York, voce dei progressisti e pianeta alieno rispetto al resto del Paese, sta mutando. L’America vera è arrivata fin qua, tanto che al Cellar non è raro trovare sostenitori di Trump. In Italia, nella lotta al politicamente corretto, tv, teatri e locali finiscono tutti per usare lo stesso codice: la volgarità. Dentro di me scorre la commedia all’italiana, Monicelli, Scola, Age & Scarpelli. Sono un pagliaccio con una missione: ripulire il mainstream di battute vecchie — razzismo, sessismo, omofobia, body shaming — e portare una sensibilità umana. Far passare qualche valore che unisca, non che divida».
Non crede che i social media stiano rendendo conformista la stand up comedy?
«L’algoritmo impoverisce il contesto. Per non farci bannare, noi comici ci inventiamo di tutto: tag sottosopra, parole scritte al contrario... È un momento cupo: TikTok “resuscitato” da Trump, Musk che apre le porte agli estremisti su X. Non è diverso dai tg nazionali, dove la parola “romeno” è dappertutto, quando si parla di criminalità. La politica è diventata così macchiettìstica che non vale un roast». […]
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