SPRINGSTEEN ON BROADWAY! “MAI FATTO UN LAVORO ONESTO. NESSUN ORARIO D'UFFICIO E NEMMENO LAVORI MANUALI DURI. EPPURE PER TUTTA LA VITA NON HO FATTO ALTRO CHE PARLARE DI LAVORO” – IL BOSS PORTA IN SCENA SOGNI FALLITI, CHITARRE INFUOCATE E POLITICA: ATTACCA LE NORME DI TRUMP SULL'IMMIGRAZIONE E CONDANNA “LA PERICOLOSA STUPIDITÀ DI CHI VUOLE METTERE L' AMERICA CONTRO L'AMERICA” - VIDEO
Michele Primi per La Lettura - Corriere della Sera
«Non ho mai fatto un lavoro onesto. Nessun orario d' ufficio e nemmeno lavori manuali duri. Eppure per tutta la vita non ho fatto altro che parlare di lavoro». Bruce Springsteen è in piedi sul palco del Walter Kerr Theater, un teatro da 975 posti a due passi da Times Square, Broadway. Maglietta e pantaloni neri indossati come una divisa sullo sfondo di una scenografia in stile West Side Story con la sua ombra proiettata su un muro. Ha una Gibson acustica e suona l' intro di Growin' Up , il pezzo con cui s' è presentato alla sua prima audizione con la CBS Records nel 1972.
Inizia così Springsteen on Broadway - «La mia lunga e rumorosa preghiera e il mio trucco magico», lo ha definito Springsteen - lo show che ha pensato per Broadway con l' idea di raccontare la sua esistenza ordinaria resa straordinaria dalla musica e di ripagare il debito con un mondo che lo ha ispirato, ma che non ha mai vissuto.
A 68 anni Springsteen s' è imposto un orario di lavoro: il 12 ottobre 2017 - poco più di un anno fa - ha iniziato a salire sul palco del Walter Kerr Theater alle otto in punto della sera, tre sere a settimana per otto settimane, fino al 26 novembre. Nessun artista del suo livello ha mai preso un impegno simile con il pubblico. Riuscire a vederlo richiedeva quasi un atto di fede.
Per sconfiggere il fenomeno del «secondary ticket» bisognava: 1) registrarsi su una pagina «verified fan»; 2) dimostrare di non essere un I (i programmi che simulano identità online per comprare i biglietti e rivenderli); 3) sperare di ricevere un sms con il codice che permetteva di comprare al massimo due biglietti.
Quasi subito Springsteen si è trovato di fronte a un problema: troppe richieste e poche date. La sua risposta è stata estendere lo show fino al 30 giugno 2018 e poi ancora fino al 15 dicembre. Quando Bruce uscirà per l' ultima volta sul palco del Walter Kerr Theater avrà fatto in totale 236 date. Lo stesso giorno andrà in onda su Netflix un documentario sullo show e uscirà un doppio album. È la celebrazione del mondo di valori che hanno creato il mito di Springsteen. Etica working class applicata alla musica, unita alla creazione di un' epica dei perdenti che scatena un senso di appartenenza: «Più che ricco o famoso, io volevo essere grande», dice durante lo show. «Qualcuno che assume un significato nella vostra vita quando le cose vanno bene, ma soprattutto quando vanno male».
Springsteen si è raccontato nella biografia Born to Run . Springsteen on Broadway è la versione teatrale del libro, due ore e mezza di narrazione intervallata da quindici canzoni interpretate da solo al piano o alla chitarra. Unica concessione al monologo, i duetti Brilliant Disguise e Tougher Than the Rest con la moglie Patti Scialfa, omaggio all' amore che salva:
«Unica ragione di vita, ciò che tiene a bada l' oscurità». Una scaletta breve per uno che dal vivo di solito parla poco e canta tantissimo. È come se Springsteen avesse voluto concentrare tutta l' intensità sul racconto, usando le canzoni come un' arma in più per inchiodare il pubblico. Canta nel silenzio, con una voce che negli anni ha acquisito forza e aggiunto precisione al furore.
La storia comincia così: «Vengo da una città in cui tutto è intriso di menzogna, e io non faccio eccezione.
A vent' anni ero un chitarrista sulle strade di Asbury Park, già membro di quelli che mentono al servizio della verità, artisti con la "a" minuscola. Avevo però quattro assi nella manica: la gioventù, dieci anni di gavetta sui palchi dei bar, un valido gruppo di musicisti della mia zona e una storia da raccontare». Springsteen ha diviso questa storia in capitoli e personaggi, dedicando a ognuno un esercizio di catarsi: Freehold, la cittadina del New Jersey in cui è cresciuto, la famiglia, l' assenza del padre irlandese e la presenza fondamentale della madre italiana, la E Street Band, Patti Scialfa e il suo fratello musicale Clarence Clemons, il deserto, la forza sociale della musica, l' America e il suo ideale tradito, il potere salvifico del rock' n'roll.
La prima figura è il padre Douglas Springsteen, «il mio eroe e il mio nemico», simbolo degli sconfitti del sogno americano. Bruce elenca i lavori che Doug ha avuto e perso - autista di autobus e guardia carceraria e tanto altro prima di finire incagliato al bancone di un bar. «Ho fatto un sogno - racconta - Stavo suonando e mio padre, morto da tempo, era in silenzio fra il pubblico. Poi io ero vicino a lui e guardavamo insieme l' uomo sul palco che cantava la vita di operai come lui. Gli ho toccato il braccio e gli ho detto: "Pa', quello là sei tu. È così che ti vedo"».
Uno dei momenti più avvincenti è Promised Land , il racconto del viaggio dal Jersey Shore fino a San Francisco per suonare la notte di Capodanno del 1969.
«Siamo partiti in tre a bordo di un camion, gli altri su una station wagon». Nella narrativa rock tutto diventa mitologia: sbandati in cerca di un futuro si trasformano in titani che superano povertà ed emarginazione per trovare il successo. Springsteen è il simbolo di questo riscatto, un ribelle di provincia che ribalta la sua vita quando è sul punto di sparire, inghiottito dal nulla del New Jersey («Che non era famoso come adesso, sono stato io a inventare il New Jersey!»).
Springsteen smonta la retorica e racconta il viaggio della svolta (che non arriva) con onestà e ironia: «Tre giorni per sbarcare in California. Ce la puoi fare, ma devi stare 24 ore al volante», dice. «Tutto è filato liscio finché non abbiamo perso il resto del gruppo. Perché io non sapevo guidare: non avevo la patente. Il tizio che ha scritto Racing in the Streets e Cadillac Ranch faceva schifo al volante». Il viaggio continua e San Francisco non porta a nulla: «Avevo un unico talento, non ero nato genio. Per sopravvivere in quel mondo dovevo metterci tutto me stesso». Sperando che bastasse. La città dimenticata di Freehold è sempre sullo sfondo: «Ho scritto tante canzoni in cui dico che volevo scappare, ma oggi vivo a dieci minuti da dove sono nato».
C' è una poesia del ricordo nel modo in cui descrive i paesaggi desolati in cui è cresciuto e quel circolo di vita raggelante che scandisce nel silenzio del teatro: «Casa, chiesa, scuola, lavoro, morte». Il New Jersey di Springsteen è una comunità di famiglie disfunzionali in cui donne italiane sposano uomini irlandesi con l' idea di cambiare prospettive e si ritrovano intrappolate nel silenzio dell' alcol e nel peso di tradizioni onnipresenti. Un luogo immobile, in cui la speranza è arrivata grazie alla radio e all' Ed Sullivan Show che il 9 settembre 1956 ha fatto entrare Elvis Presley nelle case attraverso la televisione: «Era un essere umano come me. E aveva una chitarra, la risposta alla mia dolorosa alienazione».
Grazie all' unico stipendio fisso di casa, quello della madre, Bruce si ritrova tra le mani una chitarra giapponese da 25 dollari: «La agitavo, posavo con lei, facevo di tutto tranne suonarla. Ma per un secondo, nel cortile di Randolph Street, la mia via, ho sentito l' odore del sangue». Da quella chitarra nasce la E Street Band: «I veri gruppi rock formano un insieme che è superiore alla somma delle parti. Un luogo dove uno più uno fa tre, l' equazione di amore, cuore e rock' n'roll». E dove è nato - per poi prendere il volo - il soprannome The Boss, da Bruce non particolarmente amato ma talmente famoso da far dire a Barack Obama, il 6 dicembre 2009 alla Casa Bianca, durante l' assegnazione dei Kennedy Center Honors: «I' m the president, but he' s the Boss» ( Sono il presidente, ma lui è il Boss ).
Springsteen si è fatto strada in un' America di cui non conosceva la storia («Se vi piace andare a scuola non avete futuro nel mondo delle rockstar») fino a ritagliarsi un posto nella coscienza nazionale con Born in the U.S.A. , che interpreta come un lamento per una generazione perduta di cui poteva fare parte. Alla visita di leva del 1967 fa di tutto per essere scartato e ci riesce. Bart Haynes, batterista della sua prima band, parte per il Vietnam e viene ucciso.
La politica entra nello show: dal 19 giugno Springsteen ha cambiato la sceneggiatura per attaccare le norme di Trump sull' immigrazione e condannare «la pericolosa stupidità di chi vuole mettere l' America contro l' America». Poi precisa: «Non credo che la gente venga ai miei concerti per sentirsi dire delle cose, ma per ricordare chi è e che cosa possiamo essere tutti insieme».
Lo spettacolo volge al termine con il ritorno a Freehold, nel suo quartiere. Cerca il faggio rosso davanti alla casa di Randolph Street e scopre che è stato abbattuto.
In teatro scende il silenzio: «In quel luogo l' impronta del mio albero, della mia vita, era ancora visibile. Era troppo antico e forte, come me, la mia famiglia e tutti quelli che abitavano in quelle case». Entra in chiesa e recita una preghiera che da bambino mormorava solo se costretto. Ma questo non è il finale di Springsteen. Subito cambia tono: fa accendere le luci dopo Dancing in the Dark e Land of Hope and Dreams e dice che, uscendo dalla chiesa, ha pensato alla persona che gli ha insegnato la speranza, sua madre Adele Zerilli, e cita una strofa della canzone che le ha dedicato, The Wish : «Troveremo un piccolo bar rock' n'roll, baby, e andremo a ballare».
Fuori dal Walter Kerr Theater c' è una folla che lo attende come ogni sera come ogni settimana da oltre un anno. Bruce esce dalla porta principale e si ferma a parlare, entra in un' auto nera e scivola nelle luci di Times Square. L' ultima canzone che ha cantato è il suo inno, Born to Run , il pezzo che definisce la sua vita e ha dato il titolo alla sua biografia: «Chiunque tu sia stato e ovunque tu abbia vissuto, non puoi liberartene: il passato sale in macchina con te e ci rimane. La meta e il successo del viaggio dipendono da chi guida».
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