UNA ROTTURA DI COJONI LUNGA UN GIORNO PER VEDERE UN'EREZIONE - FRANCO CORDELLI STRONCA LA 24 ORE DI JEAN FABRE: "NON E’ RONCONI, NE’ STEIN. È SOLO UNO PSEUDO-ARTISTA CHE VUOLE STUPIR. E TUTTO SI VAPORIZZA IN UNA SPECIE DI CIBERNETICA VACUITÀ"
Laura Martellini per il “Corriere della Sera”
Una catarsi per mille: tanti al teatro Argentina, alternandosi in diverse fasce orarie (alcuni eroici per l’intera durata), hanno seguito la maratona teatrale Mount Olympus - To glorify the cult of tragedy , iniziata alle 19 di sabato e terminata ieri alla stessa ora con applausi interminabili.
Quaranta minuti di acclamazioni, urla, ovazioni (tutti in piedi) all’indirizzo dei bravissimi performer e del geniaccio Jan Fabre, ideatore della monumentale impresa portata in Italia dal Romaeuropa Festival.
La tragedia greca con i suoi miti, gli incubi, i sogni, i sacrifici, umani ribelli e dèi indifferenti, fra membri maschili danzanti, erezioni, baccanali, candide tuniche macchiate di sangue, vagine vaticinanti, prove fisiche al collasso, pezzi di vera carne bovina che dopo ore di utilizzo impregnano l’aria di un odore nauseabondo.
Sono arrivati a Roma da tutt’Italia e dall’estero per partecipare al rituale. «Lui è un folle, ma un folle meraviglioso» scandisce alle tre del mattino durante la pausa-bar Julia Hanslmeiv, arrivata dalla Baviera.
Due giorni appena: weekend Fabre, e si riparte. Viaggio lampo pure per Eleonora Cau, sarda, che si concede dieci minuti d’aria (sono le 4): «Ho una laurea in Lettere classiche e trovo che anche questa sia divulgazione».
Non è uno spettacolo da scolaresche: «Partecipare a riti sacrificali era normale nell’antichità» replica l’amica Eleonora D’Alessandro. Giovani, e non solo: in quindici arrivano da Modena, Valentino Borgatti regista, e i suoi brizzolati amici. «Meno concettuale, di una semplicità adamantina» osserva quando le lancette indicano le 2.
La platea non si svuota mai, a parte l’andirivieni degli spettatori, distraente ma inevitabile. Alle 23, alle 2 e alle 5 i rimpiazzi: nuove entrate dalle liste d’attesa. Ma è una minoranza a mollare. La maggior parte si lascia contagiare da quella febbre d’insonnia auspicata da Fabre, che intorno alle 5.30 si trasforma per molti in sonno vero. Chi scivola sulla poltrona. Chi s’allunga sui verdi lettini da mare accatastati nella sala Squarzina.
Qualche bivacco al chiuso dei palchi. Intanto il rituale avanza, sospeso solo per tre brevi riposi «a vista» dei performer in candidi sacchi a pelo, su un palcoscenico dove i materiali continuano a sedimentarsi (fiori, foglie, maschere scheggiate, liquami, l’olio della turbolenta lotta a coppie finale). L’hashtag #MO24 vola (il picco dalla Grecia), e la diretta su egh.guru è rilanciata da Morgan a Asia Argento.
2. UNO PSEUDO-ARTISTA CHE NON REGALA VITALITÀ
Franco Cordelli per il “Corriere della Sera”
Mount Olympus di Jan Fabre con le sue 24 ore batte in quantità di tempo i Peter Stein e i Ronconi più estenuanti. Attribuisce a se stesso la qualità di evento che produce una delle espressioni più ghiotte dei nostri giorni: è tutto sold-out. Si vedono a Roma fenomeni di solito registrati a Londra. Fenomeni di bagarinaggio. Così l’Argentina, che ospita RomaEuropa, presenta una platea gremita, palchi tutti occupati. Ma, lo sappiamo, il belga Fabre non è Ronconi né Stein.
Stando a quanto di suo ho visto, egli è della razza di Andreev, di chi vuole stupire, come osservò Tolstoj. Anzi, a dirla tutta, è un artista che fa l’artista, uno pseudo-artista. Mount Olympus lo conclama. Diviso in quattordici episodi, raduna un buon numero di dèi, eroi e personaggi della letteratura greca. Costoro appaiono in vesti plurime: in vesti di teatro, di performance, di opera lirica, di danza. Ho in mente alcune scene.
1) Due uomini offrono le natiche ad altri due che, inginocchiati, vi ficcano dentro la faccia;
2) Un gruppo di guerrieri si prepara alla pugna sillabando e ripetendo sciocchezze con la scansione ritmica dell’analoga scena di Full Metal Jacket ;
3) Un uomo nudo al centro della scena si procura un’erezione, non si sa come né perché;
4) Per me la più convincente nello stabilire un nesso reale-metaforico tra ciò che vediamo e ciò che poi ascoltiamo: due donne, che scopriremo essere Clitennestra e Ifigenia, danzano fino allo sfinimento, letteralmente crollando a terra — sono infatti vittime di un sopruso (quello di Agamennone o quello del loro regista?);
5) Coperti da un lenzuolo, gli attori dormono. Anche qualche spettatore;
6) Il rassicurante finale: la donna abbatte l’uomo; coloratissimi, tutti danzano. Lo stile drammaturgico segue ovvie tracce prosastiche, fino al trash: State facendo un buon riposo? Eccovi un pollice da ciucciare a oltranza. Quella donna (Ecuba) è paranoica, o isterica, non ricordo. Prevale l’aspetto di performance: il pubblico applaude la bravura (atletica) degli interpreti scuotendosi dall’inerzia in cui è caduto.
Alla struttura di successione d’un momento di sofferenza, cioè di fatica, e d’un momento di liberazione fa riscontro nello spettatore non già un accrescimento di vitalità o di senso, come accade per un testo poetico, ma una perdita d’energia. Tutto si vaporizza in una specie di cibernetica vacuità – come accade, nel nostro tempo, alle pretese di totalità.
FABRE MOUNT OLYMPUSFRANCO CORDELLI