“LA LEGA DI SALVINI È UNA DEGENERAZIONE. IL FEDERALISMO È DIVENTATO FASCISMO. PER NOI È UN PIANTO” – IL 77ENNE GIUSEPPE LEONI, UNO DEI FONDATORI INSIEME A UMBERTO BOSSI DELLA LEGA, AL CURARO CONTRO IL CAPITONE: "IL MIO PRIMO INTERVENTO AL CONSIGLIO COMUNALE DI VARESE, NEL 1985, SE LO RICORDANO TUTTI PERCHÉ LO FECI IN DIALETTO. L’AULA ERA PIENA DI GENTE, SCOPPIÒ UN CASINO. CI FURONO TAFFERUGLI, QUALCUNO VOLEVA PICCHIARMI” - LA SVOLTA DELLE ELEZIONI POLITICHE DEL 1987
Estratto dell’articolo di Michele Brambilla per “Oggi”
Che fine ha fatto il Moroni?
«È morto».
E il Brivio?
«Morto anche lui».
E il Sogliaghi?
«Il Sogliaghi non lo so, non l’ho più visto».
Il Moroni, il Brivio, il Sogliaghi... Chi furono costoro? Nomi e volti riaffiorano alla memoria mentre parlo, nel suo studio di Vergiate in provincia di Varese, con Giuseppe Leoni, 77 anni, architetto, scultore, pittore, pianista, pilota di aeroplano, deputato della Repubblica per due legislature e senatore per cinque; ma, soprattutto, uno dei fondatori, quarant’anni fa, del partito più longevo tra quelli attualmente rappresentati in Parlamento.
Si chiamava, alla nascita, Lega Autonomista Lombarda: diventerà Lega Lombarda nel 1986, Lega Nord nel 1989, Lega per Salvini premier nel 2019. La Lega Autonomista Lombarda nacque nel pomeriggio del 12 aprile 1984 nello studio della notaia Franca Bellorini a Varese. Sul documento – registrato in tribunale il 19 aprile, spese di cancelleria lire 102.000 – si leggono nell’ordine i seguenti cognomi e nomi: Marrone Manuela (seconda moglie di Bossi), Moroni Marino rappresentante di commercio, Bossi Umberto, Brivio Pierangelo commerciante (e cognato di Bossi, avendo sposato la di lui sorella Angela), Sogliaghi Emilio Benito Rodolfo dentista, e infine Leoni Giuseppe. […]
Architetto Leoni, come sta Bossi, il vecchio capo?
«Non deambula più. Vado a trovarlo a casa sua, a Gemonio. A Pasqua volevo portarlo a messa ma diluviava e abbiamo lasciato perdere».
LUCA ZAIA UMBERTO BOSSI MATTEO SALVINI
Che cosa ricorda di quel 12 aprile di quarant’anni fa?
«Che era la settimana prima di quella santa e non brindammo neanche perché io sono cattolico e in quaresima faccio il fioretto di non bere». […]
Quando avete cominciato a far politica?
«L’anno dopo. C’erano le elezioni Comunali a Varese. L’Umberto non si candidò e mandò avanti me. Fui eletto per un pelo, perché la lista prese l’1,2 per cento. Però capimmo subito che il vecchio sistema stava scricchiolando: le elezioni erano state a giugno ma il Consiglio comunale fu convocato per la prima seduta solo il 30 settembre. Era l’epoca della spartizione, tipo Varese alla Dc, Gallarate al Psi e così via. I partiti non riuscivano a trovare un accordo e Varese rischiò il commissariamento».
Ricorda la sua prima seduta in Consiglio comunale, quel 30 settembre 1985?
«Se la ricordano tutti perché io feci il mio intervento in dialetto. E siccome il quotidiano locale, La Prealpina, lo aveva preannunciato, l’aula era piena di gente, almeno duecento persone. Scoppiò un casino. Ci furono tafferugli, qualcuno voleva picchiarmi e un mio amico cominciò a muovere le mani in mia difesa. Si chiamava Alfeo Caccioli. Morto anche lui».
Ma perché fece l’intervento in dialetto?
«Perché da un pezzo i varesini avevano delegato l’amministrazione della città a degli estranei. Su quaranta consiglieri, trenta erano meridionali. Il sindaco uscente, Giuseppe Gibilisco, della Dc, era un siciliano. Il sindaco neoeletto, Maurizio Sabatini, anche lui Dc, era un romano».
Come reagì la città al suo discorso in dialetto?
«Si infiammò. La settimana dopo, se fossimo tornati alle urne, avremmo preso il 5 per cento. Capimmo che stavamo tirando fuori un sentimento che era sommerso ma molto diffuso. Io, per esempio, facendo l’architetto frequentavo molto gli uffici del Catasto, che era un covo di meridionali».
Ma lei ce l’aveva con i meridionali?
«Non ce l’avevo con nessuno, volevo solo difendere le nostre tradizioni e la nostra cultura. Ma mi insultavano, mi davano del razzista. Al secondo Consiglio comunale dissi che nell’assegnazione delle case popolari bisognava dare la precedenza ai residenti: fui denunciato e finii in tribunale. Fra interventi in Consiglio comunale e comizi ho totalizzato 27 avvisi di garanzia».
[…] Se facevate le riunioni in un monolocale non dovevate essere in molti.
LUCA MORISI MATTEO SALVINI UMBERTO BOSSI
«Sérum quater gatt, eravamo quattro gatti. Io, l’Umberto, la Manuela, il Moroni e il Brivio cercavamo di coinvolgere gli amici. Il Giorgio Lozza. Il Pietro Reina. La Graziella Tenconi. Poi c’era il Dino Daverio che lavorava in Svizzera e mi aveva presentato un esperto di federalismo, l’Eros Ratti di Gambarogno. Mi parlarono di un certo Giuseppe Ferrari che era stato eletto al primo parlamento del Regno nella circoscrizione di Gavirate-Luino e alla prima seduta aveva fatto un intervento contro Cavour in nome del federalismo». […]
Quando arrivò la svolta?
«Con le Politiche del 1987. Per presentare le liste bisognava raccogliere mille firme per ogni circoscrizione. Ci riuscimmo solo in questa di Como-Sondrio-Varese. Convocai tutti gli amici all’Aeroclub di Vergiate e in una mattina tirammo su 800 firme».
Risultato?
«Fummo eletti in due: l’Umberto al Senato e io alla Camera. Così i giornali cominciarono a parlare di noi. Male, naturalmente. Noi parlavamo di federalismo, loro di razzismo. Ma intanto ci facevano pubblicità».
Diventaste un partito strutturato sul territorio.
«Per modo di dire. Ai primi stipendi da parlamentari, 5 milioni di lire al mese, io e l’Umberto cominciammo a pagare chi lavorava per noi. Di tasca nostra: ho qui tutte le fotocopie degli assegni. Poi, alle elezioni del 1992, la Lega poté usufruire del finanziamento pubblico e mettere in piedi una vera macchina elettorale. Fu l’anno della nostra prima grande affermazione. Il resto è storia».
matteo salvini e umberto bossi
Che cosa è rimasto dopo quarant’anni?
«Siamo rimasti in tre: io, l’Umberto e la Manuela. I quarant’anni li festeggiano gli altri, che non c’entrano niente».
Gli altri vuol dire la Lega di oggi?
«Sì. La Lega di Salvini è un’altra cosa. Una degenerazione. Il federalismo è diventato fascismo. Per noi soci fondatori è un pianto».
giuseppe leonigiuseppe leoni umberto bossi roberto maroni Giuseppe Leoni giuseppe leoni roberto maroni giuseppe leoni 1