IL DILEMMA CINESE - DOPO LA FUGA DEL DISSIDENTE, DEGNA DELLA BERLINO DEL MURO, L’ENTUSIASMO DEGLI ATTIVISTI CINESI È DURATO POCO - GLI USA VOLEVANO RAGGIUNGERE UN ACCORDO PER FAR RESTARE CHEN IN CINA E SALVARE GLI ACCORDI COMMERCIALI COL DRAGONE - MA POI IL DISSIDENTE SI È RITROVATO DA SOLO, E ADESSO CHIEDE ASILO A HILLARY CLINTON - MOLTI VEDONO NELLE FUMOSE TRATTATIVE DEL GOVERNO OBAMA LA VOLONTÀ DI ANTEPORRE GLI INTERESSI ECONOMICI AI DIRITTI UMANI…

Maurizio Molinari per "La Stampa"

La rocambolesca fuga di Chen Guangcheng, la trattativa segreta Washington-Pechino e l'irritazione del dissidente con gli Stati Uniti sono i tre momenti di una crisi che vede l'amministrazione Obama oscillare fra difesa dei diritti umani e Realpolitik con Pechino, trasmettendo in patria un'immagine di incertezza che non giova al presidente in piena corsa per la rielezione.

Quando, nella notte senza luna del 22 aprile, Chen fugge dalla casa nello Shandong dove vive con la moglie da quasi due anni in una condizione di prigionia, l'intesa fra Washington e attivisti per i diritti umani funziona in maniera perfetta. Il non vedente Chen salta i muri costruiti dalla polizia, attiva un cellulare fino a quel momento senza batteria per dare appuntamento a He Peirong, insegnante di inglese, che lo va a prendere in auto in un luogo prestabilito, accompagnandolo poi per oltre 480 km fino a Pechino dove in un parcheggio di periferia li aspetta un'auto dell'ambasciata americana, che riesce ad entrare nella sede diplomatica sfuggendo ai controlli dei servizi cinesi, accortisi di quanto sta avvenendo.

Il successo di una fuga che evoca episodi avvenuti nella Berlino divisa durante la Guerra Fredda mette in evidenza l'esistenza e l'efficienza - di un network di legami clandestini fra dissidenti, diplomatici e Ong Usa come ChinaAid che coglie di sorpresa le autorità di Pechino e scatena l'euforia fra gli oppositori.

Ma da quando i portoni dell'ambasciata Usa si chiudono alle spalle di Chen, la situazione inizia a mutare. L'ambasciatore Gary Locke, tornato precipitosamente da Bali dove era in vacanza, incontra il dissidente per verificarne le intenzioni e riportare ordine nella sede diplomatica. Per due volte Locke, ex ministro di Obama, e Chen si parlano da soli. Poi Chen ha per interlocutore Harold Koh, consulente legale del Dipartimento di Stato per caso a Pechino, mentre da Washington arriva Kurt Campbell, vice per l'Asia di Hillary Clinton, per trattare con le autorità cinesi che minacciano di far saltare gli imminenti colloqui strategici di Hillary e Geithner.

Il risultato della doppia trattativa è l'accordo che Locke lunedì sottopone all'avallo di Washington per chiudere la crisi: Chen lascia l'ambasciata, come chiesto da Pechino, è affidato ad un'equipe medica mista cinese-americana per curare le ferite al piede procuratesi durante la fuga e quindi si trasferirà con i famigliari a Tainjin, considerata più sicura perché vicina alla capitale e dunque possibile luogo di frequenti incontri con visitatori stranieri. La Casa Bianca dà luce verde all'accordo di Locke perché da un lato può vantare un risultato concreto per Chen, consentendogli di lasciare la casa-prigione nello Shandong, e dall'altro scongiura il corto circuito con Pechino che «resta un nostro partner strategico su più tavoli» come precisa il portavoce presidenziale Jay Carney.

Ma l'apparente miracolo diplomatico di far coincidere rispetto dei diritti umani e la Realpolitik s'infrange appena Chen arriva in ospedale. Si trova infatti senza più americani intorno e ascolta dalla voce della moglie la descrizione delle violenze, fisiche e psicologiche, subite da parte delle autorità cinesi nelle ultime due settimane. Il dissidente si sente tradito e abbandonato dagli americani, e ancor più minacciato dai cinesi, e così decide di affidare alla «Cnn» l'appello a Obama di garantirgli asilo politico e a Hillary di portarlo via con sè quando il suo aereo a fine settimana lascerà Pechino per Washington. La Casa Bianca, presa in contropiede, affida a Locke il compito di rispondere a Chen spiegando che «è uscito da questa ambasciata di sua volontà e non ci ha chiesto asilo».

Ma il duello a distanza fra Locke e Chen è un boomerang politico in patria perché mette in risalto il disappunto del dissidente per quello che si presenta come un compromesso che premia la Realpolitik a scapito dei diritti umani. Tantopiù che la Casa Bianca si spinge fino ad assicurare che «Chen vuole restare in Cina» in contraddizione con l'audio dell'intervista che la «Cnn» continua a trasmettere. E il rivale repubblicano per la Casa Bianca attacca: «Per Obama è il giorno della vergogna». L'epilogo della crisi tuttavia deve ancora essere scritto perché fino a quando la Clinton non decolla Chen può continuare a sperare.

 

chen guangcheng chen guangcheng all ambasciata americana di pechino chen guangcheng lascia lambasciata americana a pechino chen guangcheng BARACK OBAMAHillary Clintonhu jintao WEN JABAO

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