GOFFREDO, CORPACCIONE DEM - NON È MINISTRO, NON È VICESEGRETARIO, NON È CAPO-CORRENTE: MA CHI È ALLORA BETTINI, IL RICHELIEU DI ZINGARETTI CHE HA SCHIERATO IL PD SUL CONTISMO-SENZA-LIMITISMO MANDANDOLO A SBATTERE? - LE ORIGINI ARISTOCRATICHE, LA PROPOSTA DI CARRARO DI CANDIDARLO A SINDACO DI ROMA. LUI INVECE CHE DIVENTARE LEADER HA DECISO CHE I LEADER LI AVREBBE CREATI: MA CON IL GOVERNO DRAGHI E LE DIMISSIONI DI ZINGA HA PERSO TUTTO, ANCHE SE NON LO AMMETTERÀ MAI
goffredo bettini by edoardobaraldi 1
Nicola Mirenzi per “Il Venerdì di Repubblica”
Ho cominciato a lavorare a questo ritratto di Goffredo Bettini circa tre mesi fa, quando Bettini era uno degli uomini più influenti d’Italia. Consigliere principe del presidente del Consiglio Conte, riferimento indiscusso del Partito democratico, oracolo di giornali e televisioni.
L’ho incontrato a casa sua, il giorno dopo che il governo giallorosso aveva ottenuto l’ultima fiducia, alla fine della caccia ai “responsabili”. Ha risposto a una telefonata del ministro Franceschini rassicurandolo: «È un buon punto di partenza, Dario, intorno a questi numeri ora dobbiamo costruire».
goffredo bettini nicola zingaretti piero fassino
Poi, la mossa di Matteo Renzi di ritirare le ministre ha cominciato a dispiegare i suoi effetti e il disegno su cui Bettini aveva investito ogni energia – un altro governo Conte – è andato in frantumi. Bettini ha perso. Niente di quel che aveva cercato gli è riuscito: né convincere Italia viva a non strappare, né sostituirla in Parlamento, né far temere che oltre Conte ci fosse solo il voto.
goffredo bettini walter veltroni
Ha perso, una dopo l’altra, tutte le ultime battaglie, insieme all’aura di chi può ciò che vuole. La sconfitta lo ha reso oggetto di critiche e obiezioni, ma anche di cattiverie, insulti, ironie, sarcasmi, nella stessa misura in cui poco prima era stato invece oggetto di elogi, stima, considerazione, rispetto, finanche paura.
goffredo bettini gianni letta giuseppe conte
Bettini ha perso, ma non si è dato per vinto. Ha scritto sul Foglio «ben venga un congresso» del Pd e Nicola Zingaretti ha subito aperto all’ipotesi. Ha detto che l’alleanza che ha sorretto il secondo governo Conte «non muore affatto» e al momento il grosso del Partito democratico e del Movimento 5 stelle gli stanno dando ragione.
goffredo bettini walter veltroni dario franceschini
Ha dichiarato che il Pd a Roma non sosterrà «in alcun modo» Virginia Raggi e le sue parole sono suonate come la sentenza definitiva per la sindaca. Spesso Bettini dà la linea, senza avere alcun ruolo ufficiale.
Non è ministro come Franceschini, né vicesegretario come Orlando, né capo di una corrente come Orfini. Ecco cosa rende il potere che esercita così ambiguo. Nel centrosinistra, è l’uomo senza cariche, e fuori dalle istituzioni, più rilevante nel Palazzo. Non prende nessuna decisione, ma esercita una grande influenza.
MASSIMO DALEMA GOFFREDO BETTINI FRANCESCO RUTELLI
È associato a figure leggendarie. Si cita Richelieu, si cita Mazzarino. Solo che entrambi erano cardinali. Mentre lui, nel ramo ecclesiastico, sarebbe un monaco. Vive in un monolocale di trentacinque metri quadri, al piano terra di un palazzo nella parte alta del quartiere Prati, a Roma. Dorme, legge, scrive, riceve, s’apparta, osserva, s’infuria, sempre nella stessa stanza, di cui rivendica, compiaciuto, l’essenzialità, come un manifesto d’anti-privilegio.
goffredo bettini silvio berlusconi giuseppe conte by edoardobaraldi
Sostiene che nella vita non c’è persona a cui abbia dedicato più tempo di Nicola Zingaretti. Considera il segretario del Pd un figlio. Zingaretti lo ritiene un padre. Dicono che sia il suo «burattinaio», che si muova «nell’ombra». Lo definiscono «eminenza grigia». Eppure Bettini non fa altro che intervenire, dar battaglia, dire la sua.
Ancor di più oggi, rilascia interviste, scrive lettere ai quotidiani, va in radio, in televisione. Spesso Zingaretti lo ascolta. Altre volte prende un’altra strada. Chi lo conosce è sorpreso dal suo protagonismo.
Non si è mai nascosto, ma mai si era fatto così vedere. Si espone troppo per essere soltanto un consigliere politico, ma non si mette mai dentro fino in fondo per essere un leader. Cos’è, allora, Bettini?
Non si può rispondere a questa domanda senza tenere a mente un rifiuto. Gli offrirono il posto di sindaco di Roma quando ancora il sindaco lo eleggeva il consiglio comunale, nel 1993. Andò a dirglielo Franco Carraro. «Sai, Goffredo, noi». Doveva dire solo sì. Invece disse: «Non me la sento».
Anche se nella vita precedente aveva studiato per essere un giorno capo. Era stato uno dei più alti dirigenti nazionali dei Giovani comunisti, poi segretario della federazione romana del Pci, appena trentenne nella direzione nazionale del Partito, era uno dei dirigenti più promettenti d’Italia, insieme a Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Fabio Mussi.
goffredo bettini dopo tre ore di dibattito con renzi e d'alema
Il giorno in cui disse no Bettini firmò le dimissioni da un destino: quello, possibile, di leader; e decise che i leader li avrebbe creati. Chiese a Francesco Rutelli, ex radicale, neo militante del partito dei verdi, figura centrale di un’area marginale, di candidarsi. «Per fare il sindaco di Roma», rispose Rutelli, «sono disposto ad andare anche a Milano a piedi».
Iniziò così il modello Roma, finora l’invenzione più di successo di Bettini. Interpretato dopo Rutelli da Veltroni, e infine fallito con Ignazio Marino.
goffredo bettini con massimo dalema
«L’idea di puntare su Conte come riferimento dell’alleanza con i 5 Stelle – mi dice Carmine Fotia, autore con Bettini di due libri – in fondo risponde alla stessa logica dell’operazione Rutelli sindaco di Roma.
È un paradigma della tradizione comunista: scegliere figure esterne al partito per allargare il campo, credendo poi di poterle gestire».
Non c’è parola, opera e omissione che in Bettini non appartenga alla liturgia del comunismo italiano. «Noi siamo l’elefante “buono” che si porta in “groppa” qualche suonatore di tamburello», ha detto in un’intervista riferendosi ai fuoriusciti dal Pd andati con Renzi. Omaggio a Togliatti, che commentò la rottura di un funzionario emiliano su posizioni antisovietiche dicendo che si trattava di «un pidocchio annidato nella criniera di un nobile destriero».
Quando gli chiedono cos’è per lui la politica, Bettini risponde che è un «principio d’ordine», il tentativo di dare «forma» al mondo. Sostiene che allearsi con i 5 Stelle per il Pd significhi gettarsi nel «gorgo» dell’antipolitica, «attraversare il popolo» e tentare di uscirne alla guida. Sembra solo sociologia.
Invece, la «forma» è prima di ogni cosa un bisogno esistenziale. Bettini viene da una famiglia aristocratica marchigiana. Il padre, Vittorio, era un avvocato repubblicano.
Nel salotto di casa sua passavano Ugo La Malfa, Oronzo Reale, Giovanni Spadolini e altri dirigenti del partito. La madre si chiamava Wilde e aveva sposato in prime nozze un ufficiale e patriota albanese formatosi all’accademia militare di Modena.
Quando l’Italia di Mussolini occupa l’Albania, anziché arrendersi, seguendo gli ordini, disobbedisce, con un gesto che sconquassa l’opinione pubblica: si suicida. Il regime fascista è così imbarazzato che il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano invia immediatamente un aereo a prelevare la moglie e il figlio di otto mesi: ossia Luhan, il fratello di Bettini, che oggi vive a Parigi e ogni mattina, intorno alla sette, telefona a Goffredo.
«Ricordo che passavamo la fine dell’estate nel castello di Jesi», mi racconta. «Il maggiordomo ci chiamava a pranzo con la campanella, mentre noi eravamo in giardino».
È un’immagine degli anni finali della nobiltà di famiglia, gli anni della decadenza, durante i quali Bettini assiste allo sgretolamento di un’architettura di regole, tradizioni, simboli, mitologie, che erano durate decenni e ora si stavano disfacendo sotto i suoi occhi, distrutti dal fenomenale boom italiano.
Nel Partito comunista, Bettini trovò innanzitutto un riparo, un’altra struttura sopra la testa. Conobbe Gianni Borgna mentre teneva un discorso ai malati di mente di Santa Maria della Pietà, issato su un banco, il colbacco in testa. Bettini lo guardò e si disse: «E lui sarebbe quello sano?».
Fu Borgna a portarlo nella Federazione dei giovani comunisti romani dove, insieme a Veltroni, Ferdinando Adornato e altre promesse della nidiata, inaugurarono una stagione d’irregolarità che trasformò la sezione giovanile romana nella più pirotecnica e numerosa d’Italia (raggiunse i diecimila iscritti).
Pensa a loro Pier Paolo Pasolini quando dice che il Partito comunista è «il paese pulito nel paese sporco» e, l’ultima estate prima di essere ammazzato, incontra Bettini e glielo dice: «Ho fatto un film tremendo. Non vi piacerà. Ma c’è una scena che ho dedicato a voi». È Salò. La scena è quella in cui un giovane interrompe la catena di delazioni, alza il pugno e si fa uccidere. L’unica luce in un film senza scampo.
GOFFREDO BETTINI GIUSEPPE CONTE
I 5 Stelle, con i quali Bettini vuole che il Pd torni a governare, amano citare un solo comunista: l’Enrico Berlinguer della questione morale (mai quello del compromesso storico, che oggi sarebbe più appropriato). Bettini lo temeva, non ebbe mai un buon rapporto con lui.
Nel partito, ebbe due altri padri: uno della destra comunista, l’altro della sinistra. Il primo, Paolo Bufalini, lo incontrava una volta a settimana a cena alla “Carbonara”. Il secondo, Pietro Ingrao, a casa. Da uno prendeva lezioni di realismo togliattiano, dall’altro l’ambizione di volere la Luna. Qui la durezza, lì la fantasia. Più la furia di Gerardo Chiaromonte, che quando seppe che un giovane dirigente si era messo l’orecchino, convocò Bettini a casa e gli urlò (Bettini era diventato nel frattempo segretario del Pci a Roma): «Quale popolo si farebbe mai guidare da uno conciato in quel modo, maledizione!».
MATTEO RENZI ALFONSO BONAFEDE GIUSEPPE CONTE NICOLA ZINGARETTI LUIGI DI MAIO – AMICI MIEI
Il giorno prima che il Pci si sciogliesse, Ingrao disse a Bettini: «Se voti sì, da domani le nostre strade si dividono». Le loro strade si divisero. Bettini votò «sì con la testa, no col cuore». Ancora oggi ne parla dolorando. Quando lo incontro a casa sua mi dà una raccolta di fotografie in bianco e nero. Sono foto di lui bambino. «Guardi come ero bello» dice. «Sa che da piccolo volevano farmi fare l’attore?».
Da coordinatore della segreteria del Pd di Veltroni, Bettini è arrivato a pesare centottanta chili. Oggi pesa centoquindici. Non è stato sempre sovrappeso. Scorrendo gli archivi fotografici, si nota che c’è un periodo che separa un Bettini dall’altro. Questo periodo coincide con la fine del Pci, che fu per lui l’inizio di una forte depressione. Il crollo di un’altra famiglia. Stavolta senza più un posto dove andare.
sandro gozi goffredo bettini andrea orlando
«Ho fatto un tale sforzo per ricostruire un ordine nella mia vita politica», mi dice, «che sono stato sopraffatto dal disordine alimentare». In Thailandia, dove andò per la prima volta con il padre, alla fine degli anni 80, è riuscito a ritrovarsi. Ha comprato una casa nell’isola di Koh Samui. Non si è sposato. Non ha figli. Parla poco della sua vita privata. In compenso, c’è chi ne parla tantissimo, con allusioni, orientalismi, gusti. Sempre con la raccomandazione: «Sia chiaro, non mi citi».
Bettini mi dice: «I pensieri pruriginosi dicono molto delle persone che li fanno, niente delle persone a cui si riferiscono. La verità è che dopo la depressione non sono più riuscito ad avere legami sentimentali. Ho sentito, però, un forte desiderio di figli. Che, in parte, ho soddisfatto adottando sei famiglie thailandesi».
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Quando gli chiesero di fare il sindaco di Roma pensò: «E se la depressione torna?». Si disse che non avrebbe potuto permetterselo. Oggi Bettini è orgoglioso di non aver mai esercitato il «potere diretto», di cui parla con un retrogusto di sdegno.
Gli preferisce di gran lunga il «potere indiretto», quello che i comunisti chiamavano: «L’egemonia». Il non detto è che anche l’egemonia deve farsi carne. Essere interpretata in prima persona da qualcuno che se ne assuma la responsabilità. Del potere individuale Bettini non rifiuta le prerogative: si sente inadeguato a sopportarne le conseguenze, il peso sotto il quale si può rimanere schiacciati.
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Bettini ama la manovra. Non è un giocatore di poker. Una notte, perse tutto quel che aveva in tasca al tavolo da gioco e pagò il debito togliendosi l’ultima cosa che gli era rimasta: un giaccone di lana grigia. Al tavolo con Renzi ha perso di nuovo. Ha creduto al bluff, invece Renzi aveva il jolly.
Ha cercato di spiegargli fino all’ultimo quel che aveva in mente e Renzi ha detto che la sua strategia era così «raffinata» che l’ha capita solo lui. Bettini gli ha dato dell’«inaffidabile», Renzi ha risposto che «la corrente thailandese del Pd» non lo riguarda. Sono i veleni che si riservano due che hanno una complicità alle spalle, una complicità nata quando Renzi diventò segretario del Pd e Bettini fu uno dei pochi ex comunisti a non trattarlo da alieno.
Bettini ha perso, anche se non ama ammetterlo. Dice che con Draghi l’Italia è in «buone mani», però prepara la battaglia per riprendersela. Ha cominciato schierandosi subito nella lotta per il controllo del Pd, il partito che ha contribuito a far nascere, il cardine di ogni strategia, il motivo di ogni barricata. Combattere gli piace.
Quando finivano gli anni Settanta a Roma, un giorno, Autonomia operaia attaccò un’assemblea dei giovani comunisti, di cui Bettini era il capo, alla facoltà di Economia. Entrarono in aula a bastonate. I Giovani comunisti avevano passato anni a prenderle. Quel giorno però reagirono, e li cacciarono. Nell’atrio gli autonomi sfasciarono tutto. Tiravano sedie, tiravano banchi. Un banco lanciato dalla balaustra colpì Bettini e gli spezzò il braccio. Lui tenne per mesi il gesso, anche quando era guarito, come un trofeo di guerra. Oggi riconosce solo di aver preso un «colpo» e dice che risponderà «come sempre» con la politica. Ha da poco deciso di lasciare la Thailandia e tornare definitivamente in Italia. «Finché non venderò lì, starò in questa casa», dice. Sente il dovere di restare «vicino a Nicola» e l’obbligo di «aiutare Conte».
Convoca congressi, indica candidati, disegna traiettorie e non dimentica mai d’annoiarsi, come insegnava Togliatti. È chiaro che sono molte le cose che gli girano in testa. Tranne una, arrendersi.
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NICOLA ZINGARETTI E GIUSEPPE CONTE Conte Zingaretti
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