NON SIAMO MICA GLI AMERICANI - UN'INCHIESTA A RAVENNA RISCRIVE LA STORIA DEL SEQUESTRO ABU OMAR: AD AIUTARE GLI USA A RAPIRE L'IMAM NON FURONO POLLARI, MANCINI E COMPAGNIA MA ALTRI AGENTI RIMASTI NELL'OMBRA - UN'INDAGINE INTERNA DEL SISMI LO AVEVA SCOPERTO, MA... - LE PAURE DI CALIPARI, LA FONTE AMERICANA
Gian Marco Chiocci per ''Il Tempo''
Mettetevi comodi e prendetevi dieci minuti di tempo. Perché la storia che stiamo per raccontare rende l’idea di come vanno le cose in questo Paese. La gente comune si è convinta che nel 2003 uomini dei servizi segreti italiani hanno rapito (in realtà avrebbero aiutato gli americani) il signor Abu Omar, egiziano noto alle cronache come l’imam di Milano. Secondo la vulgata l’extraordinary rendition sarebbe stata organizzata dalla Cia ai tempi del governo Berlusconi, in combutta con l’allora direttore del Sismi, Nicolò Pollari, più vari sgherri dell'intelligence tipo Marco Mancini, Raffaele Di Troia, Giuseppe Ciorra e Luciano Di Gregori oltre al povero generale Luciano Seno, condannato a due anni solo per aver passato materialmente un telefono a un imputato.
La riprova che le cose sono andate così - direbbe sempre il cittadino comune - sta nell’eccellente lavoro svolto dalla procura di Milano che è riuscita a ottenere condanne pesanti fino in Cassazione (10 anni per Pollari, 9 per Mancini) pur dovendosi arrendere alla decisione della Corte Costituzionale che ha assolto tutti accogliendo il ricorso del governo sul segreto di Stato. Bene. Oggi Il Tempo è in grado di rivelarvi, carte alla mano,un’altra storia rispetto alla storiaccia conosciuta al grande pubblico. Che va approfondita immediatamente perché rischia di essere riscritta daccapo in quanto chi è stato condannato, secondo alcuni carteggi, risulterebbe innocente.
Il Sismi avrebbe appurato per tempo che i veri responsabili non erano i colleghi finiti alla sbarra ma non avrebbe fatto nulla. Come se non bastasse risulterebbe anche che gli accordi con la Cia non sarebbero nati quando Berlusconi era premier bensi quando governava il centrosinistra. Ed è forse questo il motivo per il quale tutti gli esecutivi, nessuno escluso, hanno sempre rinnovato il segreto di Stato. Ma ora seguiteci con attenzione
GEORGE W BUSH CON GEORGE TENET DIRETTORE CIA ALL EPOCA DEL RAPIMENTO ABU OMAR jpeg
L’INCHIESTA INTERNA
Il Copasir ha sempre negato l’esistenza di una «inchiesta interna» al Sismi (oggi Aise) che scagionerebbe gli indagati del sequestro Abu Omar. La politica, quasi maneggiasse una granata, si è ben guardata dall’approfondire la questione esplosiva. Lo stesso onorevole Marco Minnitti, oggi sottosegretario alla sicurezza, non è sembrato preoccuparsi più di tanto nonostante, a luglio del 2005, avesse fatto fuoco e fiamme con una interrogazione sul segreto di stato per Abu Omar.
La magistratura di Milano, di fronte all’opposizione del segreto, non ha potuto approfondire i timidi indizi che qua e là erano emersi durante il processo sulla sussistenza dell’inchiesta interna e che o oggi, grazie a un procedimento della procura di Ravenna nato sulle minacce di morte a Mancini e ad altri agenti, trovano un formidabile riscontro negli interrogatori dei protagonisti della spy story. Va detto che l’inchiesta penale su cui pende richiesta di archiviazione, per motivi di opportunità sarebbe stato opportuno svolgerla altrove e non a Ravenna dove il procuratore capo, guarda un po' la coincidenza, è il fratello di Marco Mancini, imputato principe del caso Abu Omar. Ma tant'è.
INTERROGATORI TOP SECRET
Procediamo con ordine. Paolo Scarpis, vice direttore dell’Aise nonché ex questore a Milano ai tempi in cui la Digos meneghina arrestò proprio Mancini (tempo dopo aver improvvisamente interrotto i pedinamento dell’imam) interrogato dal pm il 27 ottobre 2015 rivela ciò che fin qui si è sempre negato: l’esistenza di una inchiesta interna al Sismi/Aise.
«Sì, è stata fatta questa inchiesta interna al servizio da me e dal dottor Manenti, entrambi all’epoca vicedirettori (…). Questa inchiesta, che si risolse in un pomeriggio, è consistita nell'audizione di alcuni appartenenti ai servizi impegnati da tempo nei servizi di osservazione di alcuni appartenenti ai servizi impegnati da tempo dei servizi di osservazione aventi ad oggetto estremisti islamici presenti sul territorio italiano». Per Scarpis il fine dell’inchiesta interna era quello di dimostrare che l’attività di cui erano stati accusati Mancini e gli altri imputati «in realtà altro non era che una prosecuzione dei servizi da tempo in corso».
Segreto di Stato berlusconi e pollari
Manenti, attuale direttore dell'Aise, smentisce il collega: nessuna inchiesta interna con Scarpis, «solo un processo di valutazione riscontri al fine di promuovere il conflitto di attribuzione a fornire al presidente del consiglio tutti gli elementi necessari per delimitare il segreto di Stato».
CONTRADDIZIONI
Ricapitolando: il vicedirettore Scarpis giura al pm esserci stata un’inchiesta interna, Manenti - attuale direttore, all'epoca vice - parla solo di una «valutazione dei riscontri». Sia come sia, qualcosa è successo, qualcuno è stato interrogato anche se non si conosce come si è arrivati ad ascoltare precisi 007 mai indagati dai pm di Milano posto che quelli sotto processo nessuno, al Sismi, li ha convocati.
Ma c’è di più. A distanza di tredici anni dal rapimento dell’imam egiziano si scopre che l’«inchiesta interna» sarebbe nata dalle rivelazioni fatte ai vertici del Sismi, prima a voce e poi per iscritto, dagli imputati Mancini e Di Troia sulla base delle informazioni ricevute da un personaggio straniero (probabilmente un alto responsabile della Cia) che si era detto disponibile a testimoniare la verità in via ufficiosa agli stessi vertici del Servizio e pure all’allora premier Monti.
RELAZIONI FANTASMA
Alla luce di quel che afferma Scarpis al pm, diventa fondamentale conoscere il contenuto delle relazioni scritte di Mancini e Di Troia per capire se in esse vi siano i nomi, riferiti dalla fonte, poi presi a verbale a Forte Braschi. In caso contrario diventerebbe interessante capire come si è arrivati all’escussione, in un solo pomeriggio, di Tizio anziché di Caio o Sempronio.
Perché si potrebbero trovare analogie inquietanti con quel che avrebbe riferito Nicola Calipari a Gabriele Polo nel libro «Il mese più lungo» (prefazione della moglie del valoroso dirigente ucciso in Iraq per salvare la Sgrena) allorché faceva presente che uomini della sua Divisione («Operazioni», diversa da quella di Mancini, denominata «Prima») ben prima del suo arrivo avrebbero avuto in qualche modo a che fare col sequestro Abu Omar. Suoi agenti «cow boy» che Calipari temeva lo spiassero e lo controllassero in ufficio («Tutti affidabili - si legge a pagina 41 del libro - oppure nel caso di Abu Omar, la partecipazione di alcuni dei suoi non si è limitata a pedinamenti e rapporti?».
LE PAURE DI CALIPARI
La storia si fa interessante. Il generale Pollari, interrogato dal magistrato il 24 aprile 2015, a precisa domanda se fosse a conoscenza di notizie inerenti la sua estraneità e quella degli altri coimputati nel processo Abu Omar, spiazza il pm: «Sì. Verso la fine della seconda decade del gennaio 2013, in un albergo romano alla presenza di un vicedirettore dell’epoca, di un vicedirettore di Divisione e di Di Troia, mi fu riferito che a seguito di una "inchiesta interna" erano state escusse alcune persone appartenenti al Servizio a seguito di alcune notizie pervenute da un soggetto straniero che poco prima aveva avuto contatti con Mancini e Di Troia (…).
Dette notizie avrebbero consentito, per come mi è stato riferito durante l’incontro nell’albergo, di certificare la nostra innocenza davanti l’Autorità nazionale di Sicurezza. Le stesse cose - prosegue Pollari - mi furono riferite in quell'occasione in maniera più succinta alla presenza del dottor Mancini e di nuovo anche a me nel corso di una cena, tenutasi qualche tempo dopo, in un ristorante di via della Vite a Roma alla quale fummo invitati sempre dagli stessi due soggetti che avevo incontrato in quell’albergo (…). Mi fu detto che fu il vice direttore Scarpis a formulare le domande alle persone escusse nella cosiddetta inchiesta interna».
«SIETE INNOCENTI»
Quindi, a sentire Pollari, non solo l’inchiesta interna esiste ma avrebbe dato anche risultati certi sulla non colpevolezza di chi è finito alla sbarra a Milano. E se le cose stanno effettivamente così, perché non è stata data comunicazione all’autorità politica e giudiziaria?
Pollari ancora se lo chiede: «Nonostante le mie sollecitazioni - si legge sempre nel verbale - i risultati di questa inchiesta non mi risulta siano stati utilizzati nel processo» se non nei termini vaghi e burocratici che tutti conoscono con riferimento all’opponimento tout court del segreto di stato. Conclude l’ex direttore del Sismi: «Ho parlato diverse volte con gli altri coimputati di questa inchiesta interna all'Aise che avrebbe dovuto scagionarci (…). La frustrazione delle nostre aspettative è stata quindi oggetto di discussioni tra noi».
Le dichiarazioni di Pollari però s’infrangono contro quelle del vicedirettore Scarpis che il 27 ottobreal magistrato la mette così: «Quando i difensori di Mancini mi hanno chiesto se avessi mai acquisito notizie sulla assenza di responsabilità di Mancini e degli altri imputati risposi negativamente per mettere la parola fine a notizie inesatte pubblicate sulla stampa».
Dunque, per Scarpis, «un'inchiesta c'è stata ma non era quello lo scopo al quale tendeva». Anche sulle notizie della «fonte americana» che avrebbe potuto salvare gli 007 a rishcio condanna, Scarpis sminuisce: «Mancini me ne parlò ma non aveva nulla che vedere, sia come tempi che come oggetto, con l'inchiesta. Non mi risulta che a seguito di questi esternazioni siano stati fatti degli approfondimenti».
LA FONTE AMERICANA
Lo 007 Marco Mancini, parte lesa nel fascicolo ravennate, preso a verbale il 17 luglio 2015 conferma pari pari il racconto fatto da Pollari circa le «bellissime notizie» apprese dai vertici del Sismi sull’«inchiesta interna». Rispondendo al pm spiega di quando, col collega/coimputato Di Troia, riferì prima oralmente e poi per iscritto ai vertici del Servizio quanto appreso da una fonte straniera disposta a testimoniare sull’innocenza degli indagati: «Le verifiche furono fatte da Scarpis in quanto addetto alla sicurezza e da altre persone che lo coadiuvavano e che poi riferirono a me, al generale Pollari e ad altri che era stata appurata la nostra estraneità rispetto al sequestro Abu Omar.
L'esito dell'istruttoria ci fu comunicato con termini enfatici poco prima della pronuncia della sentenza di condanna nei nostri confronti. In particolare la comunicazione riguardò me, Pollari, Di Troia.
Ritengo però - chiosa Mancini - che l’esito di questa istruttoria non fu adeguatamente rappresentata nelle sedi opportune, ovvero nel processo d'Appello dove la documentazione che ci venne consegnata dall’Agenzia per depositarla al processo non conteneva alcun riferimento utile per la nostra assoluzione nonostante le rassicurazioni che avevamo ricevuto dai vertici dell'Agenzia, tant'è che fummo tutti condannati". Chi il 24 aprile 2015 si sfoga a cuore aperto col pm è l'ex 007 generale Raffaele Di Troia.
IL CAVALLO DI TROIA
La sua testimonianza è una bomba. Di Troia comincia col dire di essere stato contattato, a gennaio 2013 da un «cittadino straniero» per renderlo edotto dell’esito sconvolgente in una inchiesta giornalista sul caso Obu Omar. La fonte - dice Di Troia - «ci riferì i fatti di sua conoscenza che non potevano essere oggetto di testimonianza da parte sua in un processo perché gli «era vietato», tuttavia si offrì sia di riferire a entrambi i vice direttori dell’Aise e al presidente del Consiglio sui fatti in questione.
Di Troia a quel punto si sarebbe precipitato al Sismi a parlare con Manenti che l’avrebbe immediatamente dirottato su Scarpis «anche in considerazione del ruolo di questore che lui ricopriva durante i fatti che ci vengono contestati a Milano rendendo così la testimonianza particolarmente attendibile».
«SENTIRE IL PREMIER»
IL MESE PIU LUNGO LIBRO GABRIELE POLO SU SGRENA CALIPARI
Detto, fatto. Di Troia e Mancini - ribadisce il primo - riferirono a Scarpis, che l’indomani fece una riunione al Sismi «dove fu deciso di avviare un'indagine interna per ottenere riscontri alle dichiarazioni del cittadino straniero» ed anche «di procedere all'audizione del cittadino da parte del presidente del consiglio».
Il fine era dunque quello di trovare immediati riscontri all’innocenza degli imputati e far firmare a Renzi una lettera da inviare ai magistrati di Milano con la verità sul sequestro. «Pochi giorni dopo fummo resi edotti in modo piuttosto enfatico dei risultati positivi di questa inchiesta interna specificando che finalmente erano state trovate le prove della nostra innocenza (...) tanto che mi fu chiesto di organizzare un incontro informale con Pollari presso un albergo romano».
Intorno a una tavola imbandita «venne comunicata ai presenti che finalmente c'erano le prove della nostra innocenza, cosa di cui tra l'altro (i vertici, ndr) si dicevano già certi». A quel punto - conti nua Di Troia - per celebrare le lieta novella, i capi del Servizio chiesero di organizzare una cena di lì a pochi giorni anche con Mancini, cena in cui vennero ribaditi i risultati clamorosi dell’inchiesta interna».
FREGATURA
Passano i giorni e non solo a Di Troia il postino recapita una fregatura. Una lettera, da girare ai magistrati e firmata dall’allora direttore Santini, «dal contenuto completamente diverso rispetto a quelle che erano le nostre aspettative e nella quale sostanzialmente non si faceva alcun cenno all’inchiesta interna».
Si ribadiva solo la sussistenza del segreto di Stato e il divieto di pubblicare atti nel processo. Questa lettera fu effettivamente prodotta in tribunale ma giustamente non venne tenuta in considerazione dall'autorità giudiziaria posto che eventuali disposizioni sul segreto di Stato sarebbero dovuto giungere da Palazzo Chigi. Taglia corto Di Troia: «È una mia supposizione. Ma a questo punto non credo che l’autorità politica sia stata informata dell'esito dell'indagine interna né tantomeno che abbia parlato con la persona straniera (...)».
Poi succede qualcosa, impossibile saperne di più. A metà aprile 2013 Mancini chiama Di Troia per metterlo al corrente che il vicedirettore Scarpis, su sollecitazione del direttore Santini, pretendeva una immediata relazione scritta sui fatti precedentemente esposti solo verbalmente. I due obbedirono all’ordine ma una settimana più tardi, tuona Di Troia, arriva l’ennesimo colpo di scena. «Mi chiama Marco Mancini e mi dice che Scarpis gli ha chiesto di ritirare la relazione e di convincere me a fare lo stesso in quanto il contenuto delle stesse avrebbe potuto creare seri imbarazzi al Governo».
«CROLLA IL GOVERNO»
Imbarazzi? Quali imbarazzi? Sul punto è Mancini a essere più preciso col pm: «Il primo maggio mi recai a casa di Scarpis a Roma, a seguito di una sua telefonata, dove lo trovai in uno stato di afflizione con la barba lunga e in lacrime, e dopo tentennamenti vari arrivò a chiedermi di ritirare una lettera che lui stesso mi aveva chiesto di scrivere pochi giorni prima altrimenti ci sarebbero state ripercussioni istituzionali». Né lui né Di Troia, stando agli atti, avrebbero però dato seguito alla richiesta. «Scarpis - conclude Mancini - cercò di lusingarmi dicendo che se avessimo ritirato le lettere io e Di Troia saremmo stati promossi...».
E Scarpis che dice? Incalzato dal pm, ammette qualcosa ma offre una versione diversa. «Rappresentai a Mancini l’opportunità di ritirare una relazione che lui aveva depositato ed in cui lamentava il mancato seguito di un atto da lui precedentemente rappresentato, sul cui contenuto non ho ricordi precisi ma che probabilmente poteva fare riferimento alla vicenda processuale che lo vedeva coinvolto.
l'auto dove viaggiava calipari
Dissi al Mancini di ritirare tale documento in quanto era inutile mettere altra carne al fuoco poiché l'Agenzia era già impegnata attivamente a sua difesa nell'ambito del conflitto di attribuzioni che poi sarebbe stato promosso dalla presidenza del consiglio, cosa che avvenne con successo. Mancini disse che l'avrebbe ritirata (cosa che però non fece, ndr). Preciso che pur attenendo la vicenda del sequestro Abu Omar non si trattava di relazione contenente elementi che potessero supportare la non colpevolezza di Mancini e degli altri imputati».
CHI MENTE?
Insomma, l'inchiesta interna sempre negata c'è stata. Sono stati ascoltati altri 007 mai sfiorati dalle indagini di Milano. I vertici del Sismi hanno riferito agli indagati che avevano raggiunto la prova della loro innocenza ma poi al pm hanno riferito che le indagini riguardavano altri soggetti islamici precedentemente attenzonati.
Dopodiché la comunicazione scritta che avrebbe potuto/dovuto salvarli, col visto in calce del premier, non è mai stata inviata al processo. Anzi. Se il Servizio si è sempre trincerato dietro il segreto di stato (anche sulle relazioni di Mancini e Di Troia) agli atti del processo di Ravenna è stata recapitata una lettera della presidenza del Consiglio, controfirmata da Renzi in persona il 28 aprile 2015, che su questo punto assolutamente non conferma, ribadiamo il «non», il segreto di Stato.
Le due relazioni che per il Sismi non contenevano nulla di importante, venne chiesto a due 007 di ritirarle per evitare problemi istituzionali. Un caos. Ci chiediamo cos’altro aspetta il Copasir, che ben conosce questi atti giudiziari per averli acquisiti, a muoversi e fare chiarezza. Anche perché, come dicevamo all’inizio, dentro l’Aise è in atto una guerra violentissima: veeleni, bugie, scontri, minacce di morte. Tutto documentato. Ma di questo parleremo domani.