Pier Luigi Vercesi per il ''Corriere della Sera''
Sabina Ciuffini, quanti ragazzi e uomini l’hanno sognata, in quei primi anni Settanta, finito «Rischiatutto», spenta la tv e andati a letto? Lei non era nemmeno maggiorenne...
SABINA CIUFFINI MIKE BONGIORNO
«Messa così, ci si fa un’idea sbagliata. Io frequentavo il liceo classico Giulio Cesare a Roma, dove studiavano Walter Veltroni, Serena Dandini... un ottimo liceo, professori straordinari. Mia sorella Virginia, di due anni più grande, fu la prima ragazza con la Vespa. Femminista, politicizzata, niente trucco, Lotta Continua. Io minigonna, stivali, cappottone e ciglia finte. Libera di essere come volevo senza pagare pegno: le battaglie le avevano fatte loro. Non che fossi un’oca. Quando ci fu l’alluvione di Firenze, noi del Giulio Cesare, capitanati da quelli dell’ultimo anno, ci dirigemmo alla stazione, salimmo sul primo treno senza biglietto e partimmo per la città devastata dall’acqua».
Come andò?
«I fiorentini ci accolsero come angeli del fango, ci diedero da dormire e da mangiare, mentre cercavamo di salvare il salvabile nelle biblioteche. Avevo 16 anni e dormivo fuori casa. Incontravo per la prima volta ragazzi americani con jeans, scarpe da ginnastica e chitarra. Noi avevamo i calzettoni blu, la gonna a pieghe, il cappottino. Un’esperienza esotica, per non dire altro. Tornate, fummo travolte dallo scandalo».
Perché lo scandalo?
«La scuola parlava di sospensione per non aver chiesto il permesso. Fu mio padre a prendere le nostre parti».
Quando conobbe Mike Bongiorno?
«Entrò nella mia vita gli ultimi giorni prima della maturità. Gli serviva una valletta per una trasmissione di un paio di mesi. La tv faceva schifo a tutti, si stava in piazza. Mi proposero un provino e io subodorai la possibilità di una paghetta. Eravamo cinque, scelsero la sorella di Ornella Muti, Claudia Rivelli, stupenda, la più sviluppata di tutte noi. Rifiutò perché aveva contratti pubblicitari e l’avrebbero pagata troppo poco. Ritornai in gioco io: 10 mila lire al mese per tre ore di lavoro alla settimana.
Mia sorella e le sue amiche mi compativano, ero la stupidina che si truccava. Quelle che restavano incinte, però, di solito portavano la gonna blu sotto al ginocchio. Invece gli uomini che volevano fare la rivoluzione non si facevano tanti problemi per il mio trucco! Lo capivo quando andavo a Lotta Continua, da mia sorella, o al Male e a Frigidaire, dal suo compagno, Vincenzo Sparagna. Un giorno, in redazione, vedo un ragazzo bellissimo appoggiato a una parete. Per la prima volta un colpo di fulmine. Per fortuna, non mi capitava mai! Si avvicina: “Andrea Pazienza”, capisce che mi piace, parliamo, mi porta via. Ci rincorre Sparagna: “Fermi lì, riporta indietro mia cognata e sparisci!”».
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Va bene, ma lei si presentò nella tv democristiana con la minigonna. Com’è stato possibile?
«“Hot-pants, hot-pants”, chiedeva Mike: “Come le ragazze americane”. Me le dovette cucire mia nonna, di velluto nero: in Italia non esistevano. Ebbero un successo strepitoso, pacchi di lettere di ragazzine che scrivevano: “Finalmente papà mi permette di portare la minigonna. Se la mette la Sabina che è una brava ragazza...”. I vestiti della Rai erano orrendi. Un giorno venne mia mamma per salutare Turchetti, con il quale aveva lavorato 25 anni prima.
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Mi vide vestita da loro: “Oddio, sembri la principessa della Ciarda!”. Mi portò in Piazza di Spagna e mi comprò un vestitino marrone. Nessuno in Rai fece mai storie. Dissero solo che dovevo essere aggraziata. Tracciarono due segni per terra: “Non muoverti da lì, tieni un piede dietro l’altro”. Sì, sì, pensavo io, aggraziata, ma datemi i soldi che devo uscire con gli amici. Era un gioco, doveva durare pochi mesi e continuò per cinque anni. E dire che era partito male».
Racconti...
«Nessuno ci filava e alla prima puntata sbagliammo persino l’Inno di Mameli. Al teatro delle Vittorie c’era un funzionario cattivissimo, tale dottor Salvi. Trattava Mike come una pezza da piedi. Lo vidi sbatterlo contro il muro. Lui non reagiva mai. Quando entrai in confidenza cominciai a chiamarlo: “Il soldato Mike”. Dopo i primi svarioni cambiarono l’autore e, alla terza puntata, con la signora Longari, facemmo il botto. Ventotto, trenta milioni di persone ci guardavano tutte le settimane. Però Salvi non mi poteva vedere. Alla cena di fine anno mi disse: “Lei non mi piace, voglio sostituirla”. Da farmi piangere! Lì Mike s’impuntò: “Squadra che vince non si cambia”, si rifiutò di vedere altre ragazze. A partire da una certa puntata mi allungarono la gonna. Tra i concorrenti c’era un sagrestano e pare che il Papa ci guardasse».
Poi finì sulla copertina di «Playboy», «Rischiatutto» chiuse, fece un Sanremo non brillante, qualche film e canzoni così così, un viaggio in India, come le fricchettone, e si sposò. Come si ricostruisce una vita?
«Approdata a Milano frequentavo Brera, il bar Giamaica, intellettuali, artisti, socialisti. Mi vedevano come una ragazza da proteggere. Soprattutto mi accorsi di essere tagliata per gli affari: aprivo ristoranti, lavoravo per marchi di moda, la mia specialità era la pubblicità subliminale. Mia sorella finì a Sorrisi e Canzoni e mi presentò il direttore Gigi Vesigna. Un giorno passo in redazione e mi dicono che non riescono a intervistare Niki Lauda, che stava rompendo il contratto con Enzo Ferrari.
“Ci provo io”, azzardai. Sapevo che era sotto contratto con un’azienda di Carpi per cui lavoravo. Per farla breve, obbligarono Lauda, non un simpaticone, a darmi l’intervista e a farsi fotografare. Un successone. Gigi alzò il tiro: “Portami Ferrari”. Mi presentai a Maranello con la mia amica Marina Coffa, la ragazza più bella del mondo con al collo una macchina fotografica. Riuscimmo persino a fotografarlo. Sbattevamo le ciglia e dicevamo: “Se non porta le foto non la assumono”.
Nacquero così le interviste ai numeri uno. Ma già non sapevo più dove sbattere la testa. Un giorno, alla Locanda Solferino, mi avvicinai a Enzo Biagi e gli chiesi se mi aiutava a contattare Agnelli, Andreotti e qualcun altro. “Regola del mestiere è non dare mai i numeri di telefono” e tirò fuori l’agenda. Se la rigirò in mano, poi disse: “Vado in bagno”. La rubrica era lì, sotto il mio naso, l’aprii e copiai i numeri che mi servivano. Chiamai Agnelli e il centralino non me lo passò. Il giorno dopo, alle sei del mattino, squillò il telefono: “Mi dica, com’è Mike Bongiorno?”.
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Era l’Avvocato, mi suggerì di raggiungerlo negli spogliatoi della Juventus a Roma, dove la domenica successiva giocavano contro la Lazio. Mi presentai e trovai Luca di Montezemolo arrabbiatissimo perché era lui a decidere chi e quando intervistava Agnelli. Venni via scornata, ma tornai in gioco grazie alla mia amica Marina. Luca se n’era infatuato, prometteva di sposarla, si presentò sotto casa sua con un biglietto per il giro del mondo. Non approdò a nulla, ma mi lasciò intervistare l’Avvocato. In verità fu Agnelli a farmi domande per un giorno intero. Poi venne Andreotti, che disse: “Se cadrà il Muro di Berlino, vedrà che disastro!”. L’unico che non accettò, mandandomi una lettera garbata, fu Berlinguer».
Non sarà perché lei è la nipote di Guglielmo Giannini, l’Uomo Qualunque, il primo populista dell’Italia repubblicana?
«Non credo. Comunque nonno non era un politico, era un uomo speciale. Parlava all’uomo qualunque, la parola qualunquismo l’hanno inventata altri. Eppure anche in famiglia se ne vergognavano tutti: metà erano missini, gli altri di ultrasinistra. Io sono nata in Argentina, nella pampa, proprio per quel motivo: Augusto e Ivonne, papà e mamma, si sposarono quando nonno Guglielmo era all’apice del successo.
Il loro matrimonio fu osteggiato, ma si amavano, si sposarono e fuggirono via. Neanche il tempo di fare la traversata con il transatlantico e nonno era in disgrazia. In Argentina, dove li attendevano ponti d’oro, tutte le porte si richiusero. Vita grama. Papà, architetto, finì a fare il camionista e si trasferirono a San Juan, dove siamo nate Virginia e io. Augusto però aveva immaginazione e si inventò le prime costruzioni antisismiche. Risalirono la china e cominciarono a pensare che l’Argentina, nazione “macha”, non era un bel posto per crescere due figlie femmine. L’atmosfera non piaceva soprattutto a mamma: lì gli uomini avevano tutti due o tre famiglie».
A proposito di uomini, non ne vedo in casa.
«Dai 17 ai 46 anni, senza soluzione di continuità, ho avuto un compagno. Poi ho smesso, troppo impegnativo... Ma mai dire mai».
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