- L'ARTICOLO DI ''OPEN'' SU SOROS (SENZA FIRMA)
GEORGE SOROS E LA OPEN SOCIETY
A volte le scelte dei cosiddetti sovranisti (o populisti) fanno discutere, disorientano, o peggio. Ma lo stesso si può dire spesso anche delle scelte fatte dagli europeisti liberali, che sembrano in rima baciata con quelle dei loro antagonisti. È il caso della decisione del quotidiano britannico Financial Times di scegliere come persona dell'anno il finanziere ungherese George Soros.
Soros, l'emblema assoluto di coloro che i sovranisti - non solo in Ungheria - combattono: un finanziere speculativo, nemico giurato dei russi per aver favorito a suon di miliardi i movimenti filo-occidentali in Ucraina e non solo, favorevole all'immigrazione e finanziatore delle Ong, e per di più, aggravante per molti sovranisti di destra, di religione ebraica (ma lo odia anche Netanyahu).
Del resto i pasdaran del sovranismo bollano proprio così i loro avversari, gli europeisti liberali: sorosiani. Ecco, in qualche modo la decisione del Financial Times accoglie il punto di vista dei sovranisti, lo fa proprio senza che nessuno nel mondo della finanza abbia mai considerato davvero Soros come un suo punto di riferimento, figuriamoci il suo campione. E il vero filantropo finisce per essere proprio il Financial Times: un bel regalo di Natale ai dietrologi di mezza Europa...
LA REDAZIONE DI OPEN DI ENRICO MENTANA
- STRONCATURA RILUTTANTE DELL’OPEN DI MENTANA, #COLPADISOROS
Christian Rocca per www.rollingstone.it
Non sono un fan di Enrico Mentana, non mi hanno mai appassionato le sue maratone e i suoi modi gigioni e, se devo dirla tutta, penso che sia uno dei principali responsabili del disastro politico e civile in cui ci troviamo, limitando ovviamente le colpe alle persone intelligenti e consapevoli, per aver legittimato in prima serata televisiva ogni forma di cialtroneria sul mercato, da calciopoli alle teorie cospirative sull’undici settembre, fino agli sciamannati di Beppe Grillo e a un racconto della politica fatto di gnagnera in politichese che avrebbe fatto diventare populista anche Montesquieu.
Ma devo ammettere che mi sono parzialmente ricreduto quando ha annunciato l’operazione Open, ovvero il lancio di un nuovo giornale online nel quale avrebbe assunto una ventina di giovani giornalisti rischiando interamente di tasca sua. Bravo, ho pensato. Ero certo che il prodotto editoriale non mi sarebbe piaciuto, non mi piace niente di quello che fa Mentana, ma tanto di cappello e complimenti a prescindere.
open il giornale online di mentana
Per questo, quando Open è andato live, mi sono morso più volte la lingua per non commentare il saggio di Natale da scuola di giornalismo della Mentana e Associati, il design improbabile, il font egizio poco leggibile, la sciatteria dei titoli tipo vetrina dei tg “tema-virgola-soggetto”, le sezioni chiamate “la cronaca” e “le nostre storie” che ricordano gli scaffali di Eataly “la carne” o “il nostro caciocavallo”. Qualcuno mi ha fatto notare anche un titolo che chiamava “Kroll” l’allenatore del Liverpool “Klopp”, ma questi sono incidenti di percorso che capitano anche nelle macchine editoriali più oliate, figuriamoci in una start up costruita intorno a ragazzi alla prima esperienza professionale.
La home page di ‘Open’
Non è questo il punto. Il punto, semmai, è il senso di generica inutilità della proposta editoriale di Open. Non si capisce bene che cosa sia. Un giornale per i giovani non vuol dire niente, così come non vuol dire niente un giornale aperto 24 ore e un giornale che si legge sugli smartphone, perché siamo quasi nel 2019 e anche il Tempo o il Resto del Carlino, per dire, si leggono sugli smartphone.
È ancora molto presto per dare un giudizio razionale e completo, e davvero spero che Open trovi presto il suo ruolo, ma da quello che si è letto nei primi giorni sembra che la nuova creatura sia un tradizionale quotidiano online generalista, a metà tra il Televideo e il Nuovo, che è un antico ma non proprio fortunatissimo precursore di quotidiano online.
open il giornale online di mentana
Poi però ho letto un titolo a un articolo breve che mi ha fatto sobbalzare sulla sedia, e che mi ha convinto a scrivere questo articolo poco solidale con un’impresa che invece meriterebbe altro rispetto, a proposito di un preteso «autogol» commesso dal Financial Times per aver nominato George Soros «uomo dell’anno», sottolineato da un post di Mentana che non so più su quale social network ha scritto «Soros, uomo dell’anno, not in my name», probabilmente per rispondere agli schiantati di Internet che in questi giorni lo hanno accusato di essere al servizio della globalizzazione selvaggia e del PD. Lui, Mentana!
Ora, a parte che ovviamente il Financial Times non ha scelto Soros a nome di Mentana, né a nome mio o di qualcun altro, ma semplicemente a nome del medesimo Financial Times, mi ha colpito molto la motivazione della redazione di Open (l’articolo non era firmato) che più o meno recitava così: i sovranisti, i populisti e gli antidemocratici di tutta Europa vedono in Soros l’emblema del male, quindi aver premiato uno come lui è un autogol perché di fatto accoglie il punto di vista dei sovranisti.
Un bel modo di ragionare, se ci pensate bene: come se un eventuale premio “persona dell’anno” a Winston Churchill nel 1940 o giù di lì potesse essere considerato un «autogol» perché in quel momento in tutta Europa si pensava che la Gran Bretagna fosse una «perfida Albione». Forse a Vichy, in effetti.
Le ragioni elencate da Open per definire «autogol» la scelta di Soros, ovvero l’impegno democratico e filo occidentale, pro Ong e in difesa degli esseri umani in fuga dalla guerra e dalla fame, semmai sono esattamente quelle per cui avergli conferito il riconoscimento di «persona dell’anno» rende onore a un giornale democratico, occidentale e grato del lavoro svolto dalle organizzazioni non governative per salvare i disperati del mare. Un giornale aperto, open, non chiuso: questo giornale è il Financial Times.
- IL PESSIMO ARTICOLO DI OPEN SU SOROS (MA IN BOCCA AL LUPO COMUNQUE)
Elio Truzzolillo per www.nextquotidiano.it
Soros con la nuova moglie Tamiko Bolton
Preliminarmente e senza ipocrisie vorrei porgere il mio personale in bocca al lupo al nuovo giornale di Mentana. Seguo e stimo alcune delle persone che ci lavorano e gli auguro tutto il bene possibile. Però… un brutto articolo rimane un brutto articolo e può essere anche indice del posizionamento di una testata su certi temi, specialmente se l’articolo non è firmato ed è quindi presumibilmente riferibile al direttore responsabile (Massimo Corcione). Sia chiaro, ogni posizionamento sarebbe legittimo, ma altrettanto legittimo sarebbe criticarlo. Non esiste, infatti, l’imparzialità assoluta, e nessuno la pretende, specie su temi squisitamente politici.
Ci riferiamo all’articolo con cui Open commenta la decisione del Financial Times di attribuire il premio di uomo dell’anno al finanziere George Soros. L’articolo è stato condiviso da Enrico Mentana su Facebook con un eloquente “Not in my name”, un commento forse più adatto alla decisione di un governo di togliere i diritti civili ai Rom. In sostanza l’autore ammette che le posizioni dei populisti/sovranisti possono fare discutere (che grande concessione) “ma lo stesso si può dire delle scelte fatte dagli europeisti liberali”. Il problema sarebbe che Soros è l’emblema di ciò che i sovranisti combattono (e chi se ne frega non ce lo vogliamo mettere?).
L’articolista fa presente che Soros è odiato in quanto finanziere speculativo (qualcuno mi faccia dei nomi di finanzieri non speculativi), nemico giurato dei russi (mica un bravo e diligente fan di Putin eh), favorevole all’immigrazione (che brutta persona), finanziatore di ONG e pure di religione ebraica. Bene, se questi sono i motivi per cui i sovranisti lo odiano, comincia a essermi già un po’ simpatico. Per l’articolista il premio a Soros sarebbe un regalo di Natale ai dietrologi di mezza Europa. Capito? Se i sovranisti/complottari sono convinti che Soros, i Rothschild e il gruppo Bilderberg siano la causa di tutti mali del pianeta, non si può mica controbattere.
massimo corcione clemente mimun enrico mentana emilio carelli
Se sono convinti che Soros stia mettendo in atto il fantomatico piano Kalergi per mischiare la sacra razza europea con la feccia africana, con lo scopo di creare una nuova razza più docile (sì, sono queste le boiate che condividono), non gli possiamo dire che non siamo d’accordo, altrimenti s’incazzano e facciamo un autogoal (vedi titolo dell’articolo). Come si permette uno dei giornali più antichi e autorevoli del mondo di ribadire simbolicamente certi valori di razionalità, apertura e integrazione? Not in my name? Cosa diavolo intende Mentana? È il caso di riportare alcune motivazioni con cui il Financial Times ha conferito il premio usando l’ottima traduzione de Il Post:
“Per più di trent’anni ha usato la filantropia per combattere l’autoritarismo, il razzismo e l’intolleranza. Attraverso il suo lungo impegno a favore dell’apertura, della libertà di stampa e dei diritti umani, si è attratto il disprezzo dei regimi autoritari e dei populisti e nazionalisti che continuano a guadagnare terreno, soprattutto in Europa”.
paola severino christian rocca
Tra questi regimi vi sono la Russia di Putin, l’Ungheria di Orban (lo stesso Orban che fu protetto da Soros sotto il regime comunista), la Bielorussia, il Turkmenistan e il Kazakistan. Questi valori fanno incazzare i populisti/sovranisti? Ce ne faremo una ragione. Ovviamente il miliardario e filantropo è mal visto anche da Donald Trump e dal nostro Salvini, che attribuisce ai “finanzieri alla Soros” oscure manovre sullo spread e un losco piano per portare più immigrati in Italia. Soros è il nemico giurato della destra nazionalista, anti semita, razzista e protezionista, e, ovviamente, di quella sinistra anti capitalista e anti mercato che con questa destra va a braccetto (l’Italia è il primo paese che mi viene in mente tanto per dire).
Il Financial Times spiega chiaramente che questa volta non si è voluto premiare un uomo per i risultati raggiunti durante l’anno in corso, ma un simbolo di valori che vengono messi in discussione, una scelta di resistenza contro quei disvalori che oggi sembrano avere tanto successo. D’altronde stiamo parlando di una testata giornalistica non di un partito o un’istituzione politica a cui si potrebbe consigliare più prudenza (sto cercando di seguire il ragionamento insulso dell’articolista ma non mi riesce).
CHRISTIAN ROCCA CON LA REPUBBLICA
In ogni caso lo sappiamo perché Soros è tanto odiato anche in Italia, è per via di quella famosa manovra speculativa sulla lira del 1992. In un paese dove neppure le élite riescono a capire e ad accettare il normale funzionamento dei mercati finanziari, non stupisce che un singolo finanziere venga accusato di avere messo in difficoltà una moneta per capriccio e avidità. Bisogna davvero non avere chiari nemmeno i fondamentali per credere una cosa del genere.
Enrico Mentana, purtroppo, è uno dei tantissimi che questi meccanismi non li ha proprio capiti. D’altronde se la nostra classe dirigente (in senso lato) li avesse capiti, uno come Salvini prenderebbe sonore pernacchie in ogni dove per certe dichiarazioni assurde. A tal proposito mi permetto di segnalare un post dell’ottimo Massimo Fontana che spiega in modo semplice e accessibile cosa successe in quel lontano 1992. Quindi che significa quell’articolo?
E, soprattutto, che significa quell’espressione grave e solenne usata da Mentana? Ora, io non ho particolari simpatie o antipatie personali verso Soros, ma se il Financial Times intendeva celebrare e difendere (come ha scritto) l’anti autoritarismo, lo stato liberale, l’anti razzismo, la libertà di stampa, l’integrazione e i diritti umani, come si fa a scrivere “Not in my name”? Espressione che di solito si usa per denunciare qualcosa di radicalmente inaccettabile? Ammetto che la cosa significhi poco, ma segnalo che Libero ha titolato “L’ultima buffonata del Financial Times”, Il Giornale “Premiato perché ci fa invadere”, Diego Fusaro ha scritto… vabbè avrete capito quello che intendo. Spero che Open non miri allo stesso pubblico, ma, soprattutto, spero che entri nella testaccia dura di noi italiani un nucleo minimo di nozioni economiche, altrimenti finisce sempre che i Soros sono il diavolo, i mercati il loro strumento e Di Maio e La Castelli la nostra speranza.
- LOWRES | OPEN E L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DEL WEB
Massimo Mantellini per https://startupitalia.eu/
In bocca al lupo a Mentana e alla sua nuova avventura editoriale in Rete. Che però deve guardare anche al passato per costruire una solida esperienza d'informazione di qualità
Ieri c’è stato il debutto online di Open, il nuovo giornale fondato da Enrico Mentana di cui si parla moltissimo. Ogni nuovo strumento informativo è una buona notizia, nel caso di Open lo è anche di più. Perché è dichiaratamente una operazione di “restituzione” (un famoso giornalista che spende il suo nome ed i suoi soldi per nuovi giovani colleghi) e perché si presenta come un’iniziativa controcorrente: aprire un quotidiano online oggi, in un momento nel quale tutta l’industria editoriale soffre in maniera particolare, è una scelta certamente coraggiosa.
Mille in bocca al lupo quindi al fondatore e alla sua giovane redazione ma anche, subito dopo, un’immediata perplessità.
Open si presenta, orgogliosamente, come un giornale da leggere sul cellulare, un quotidiano mobile. I numeri della Rete sono del resto noti a tutti. Ben oltre la metà degli accessi ai siti informativi, in Italia come altrove, avvengono ormai da smartphone e (meno) da tablet. Così Open ha scelto di non avere un vero e proprio sito in versione desktop. Chi accede da un PC o da un laptop si trova di fronte una versione AMP basilare e molto poco curata (per usare un eufemismo) dei contenuti prodotti dalla redazione per il mobile.
È una scelta forse necessaria, progettare un sito web moderno è estremamente difficile e costoso, ma in qualche misura profondamente sbagliata. Difficilmente i siti web informativi con qualche aspirazione rinunciano oggi ad una propria presenza web strutturata. Perfino i progetti più innovativi e orientati verso il mobile (penso a Quartz) hanno una presenza desktop, magari minimale, ma ben caratterizzata. Perché quello spazio resta la casa del giornale e il flusso sullo smartphone una sua propaggine.
Alle parole importanti serve un contenitore, ai contenuti strutturati serve un archivio. Le facezie e le chiacchiere possono invece scorrere ovunque senza grandi patemi. Scegliere di non presidiare un proprio luogo di Rete, facendo assomigliare il proprio lavoro al flusso incessante della colonna degli aggiornamenti delle piattaforme social, sembra un modo come un altro per condannarsi all’irrilevanza.