Giampiero Mughini per Dagospia
Caro Dago, Dio che botta in volto mi hai dato a scrivermi che era morto Paolo Isotta. Non che io fossi un suo assiduo, ciò che credo fosse molto difficile, da quanto Paolo era un rompicazzi anche per i suoi assidui. Solo che gli volevo bene, punto e basta.
Qualche tempo fa per una mezza frase che avevo scritto e che lo riguardava, mi aveva scritto a rompermi le balle cinque o sei mail una dopo l’altra. Una tortura. Non che me fregasse poi tanto, gli volevo bene punto e basta. E come non volergliene da quanto era speciale, forse un unicum della specie umana.
Lo avevo conosciuto al tempo - addirittura i primi Ottanta - in cui avevo conosciuto un drappello di intellettuali che venivano tutti dalla destra e taluni dalla destra marcata e di cui sono rimasto amico negli anni. Voglio dire Stenio Solinas, Umberto Croppi, Marco Tarchi, Giuseppe Del Ninno, Gennaro Malgieri, ovviamente Paolo, e ne sto dimenticando.
Tutti loro sono adesso miei amici, e con ognuno di loro ho molte cose in comune più che non ne abbia con ciascuno di quelli che stavano a Lotta continua e ho beccato 26 processi per aver fatto il direttore responsabile del loro giornale, un giornale che nemmeno leggevo ma di cui sentivo il dovere generazionale di permettere che uscisse, perché era una della voci più autentiche della mia generazione. E si trattasse di rifarlo domani mattina, lo rifarei.
Quanto ai ragazzi che venivano dalla destra, io ero stato in Italia il primo a parlare di loro come fossero esseri umani e non dei tipacci con tre narici o forse quattro. Ci incontrammo con ognuno di loro, parlammo dei film che amavamo (più o meno gli stessi), dei libri che leggevamo (più o meno gli stessi).
Di quel drappello Paolo stava a sé, e non solo per il fatto che quanto a musica se ne intendeva più di ogni altro al mondo. Era un dandy napoletano che veniva da una famiglia agiata, era un omosessuale (di cui da zero a un miliardo a me importava zero), sapeva quasi tutto di tutto, forse di più. Era ostinato come un mulo in ogni cosa che sosteneva. A parte sé stesso, tutto il resto veniva dopo, infinitamente dopo.
Gli volevo bene, vi ho detto. Una volta in una chiacchiera pubblica ci scontrammo nel senso che io, pur non essendo più “di sinistra”, continuavo a credere che nella storia di una società e di una civiltà esistesse una sorta di “progresso”, che molte cose della società e della civiltà vanno a migliorare. Paolo diceva che no, che non era così.
Me lo ricordo come se fosse adesso quel nostro confronto in un’auletta romana, lui come sempre un dandy elegantissimo. Avevi ragione tu, caro Paolo. Ti voglio bene, ti abbraccio, ti piango. Avevi ragione tu, in fatto di fetenzie e crimini di ogni genere diffusi in una società e in una civiltà, questi germi non la finiscono di marciare alla grande. Alla grandissima. Addio, Paolo.
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