Marco Giusti per Dagospia
RICHARD GERE E PAUL SCHRADER SUL SET DI OH CANADA
Non è solo una Cannes di registi ottantenni (i vecchi critici ce li siamo giocati col Covid due anni fa) è anche una Cannes di registi ottantenni che parlano di altri vecchi malati e morenti. Allegria.
Per quanto si ami e si apprezzi da sempre il lavoro di Paul Schrader, che ci sembra ancora vitale e rigorosamente perfetto nelle sue ossessioni di temi e di messa in scena, questo "Oh Canada", trasposizione dell'ultimo romanzo del suo amico Russell Banks, scomparso un anno fa, su un vecchio documentarista politico americano, Leonard Fife, scappato in Canada ai tempi della guerra in Vietnam, malato di cancro, interpretato - è vero - da un grande Richard Gere, non ci sembra così riuscito come, con tutta probabilità, è invece stato sentito e sofferto dal regista, dallo stesso Banks prima di morire e dal suo celebre protagonista incontrato da Schrader ai tempi gloriosi di "American Gigolo".
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Banks, che aveva dato a Schrader il soggetto di uno dei suoi film più noti, "Affliction", offre qui all'amico l'occasione per girare un film sulla "vanità della morte". Come diceva Bernardo Bertolucci di "Nick's Movie", ritratto di Nicholas Ray morente voluto da lui stesso (Shoot - Cut - Shoot) e montato in due modi diversi dal co-regista Wim Wenders (ma la prima, quella del montatore, oggi invedibile rimane la migliore).
Come il vecchio Nick Ray anche il protagonista di "Oh Canada", il Leonard Fife di Richard Gere, documentarista che ha passato tutta la vita a ragionare sulla verità mediata dal mezzo (ma la citazione di Susan Sontag se la potevano risparmiare) ha deciso di confessarsi davanti alla macchina da presa per l'ultima volta. E vuole che sua moglie e coproduttrice, Uma Thurman, assista.
Perché sarà la confessione di una vita di bugie e cose non dette che lei deve sapere. Ma il morente ha davvero la lucidità per raccontare la sua vita e il regista saprà cogliere quella verità? Non ci si può fidare dei registi che parlano davanti alla macchina da presa. Si sa. A questo punto si incrociano una serie di storie parallele che lo spettatore deve pesare e capire quanto vere o quasi vere perché occupano delle posizioni temporali non così chiare.
A complicare le cose ci pensa anche la scelta che mi piace molto, di fare interpretare Leonard giovane un po' dal pennellone Jacob Elordi ("Euphoria") un po' dallo stesso Gere in versione non malata. Un bel settantenne.
Uma Thurman interpreta se stessa da giovane e anche la donna di un pittore che gli fa un raspone prima che lui decida di andare in Canada. Proprio la fuga in Canada, così eroica sulla carta, sembra mediata da sentimenti diversi. C'è la fuga dalla moglie a Richmond, con cui ha un figlio e un'altra in attesa, e se rimane ha già capito che la sua vita sarà da ricco industriale bianco del Sud perché il padre vuole farlo Ceo della sua fabbrica. Un uomo finito. Ma c'è anche la fuga da altre donne e da un mondo dove a 27 anni hai già fatto tutte le scelte possibili.
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Quando si troverà a dover scegliere se proseguire verso il Massachusetts e il Canada sappiamo bene che sceglierà il Canada. Ma non sarà neanche una scelta politica. La scelta politica sarà quella del lavoro. Il documentario militante alla Erroll Morris, così lontano da Schrader e dalle sue passioni cinematografiche.
Alla fine tutti questi diversi piani temporali si aggrovigliano e pure uno sceneggiatore esperto come Schrader finisce per perdersi un po' e farci perdere il filo. E lo spettatore già dorme da ore. La verità della vita di Leonard in fondo è la cosa che a tutti da subito interessa meno. A cominciare dal regista e dal protagonista che faranno sicuramente il loro film. Perché quella è la sola cosa che conta.
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