Riccardo Staglianò per “il Venerdì - la Repubblica”
La Grande Agnizione Adam McKay ce l’ha a notte fonda. Ha cominciato The Big Short, un libro sulla crisi del 2007, e finalmente comincia a capire. Eccitato, prova a riassumere alla moglie che sul cuscino accanto vorrebbe solo scivolare verso l’incoscienza. Collateralized debt obligations, credit default swaps e via snocciolando. Lei: «Suona così noioso!». Lui: «Lo fanno apposta, per far sì che la gente non ci provi neanche a farsi un’idea».
Di qui l’illuminazione: se riesco a trasformare una tragedia in una commedia, magari la gente non si arrenderà più ed eviterà la prossima catastrofe. Il film La grande scommessa nasce così, prendendo doppiamente sul serio il titolo. Il primo azzardo è di contenuto: portare sul grande schermo, con assortimento di star, una materia forse solo una tacca meno complessa della fisica quantistica. Il secondo è morale: ha senso ridere di una catastrofe?
Il mio amico Louis, newyorchese scafato alle soglie dei settant’anni che la crisi l’ha seguita ogni giorno sul New York Times e vissuta nei racconti in corpore vivo degli amici, non è convinto. Alla fine, dice, si rischia di fare dei protagonisti (il manipolo di gestori di hedge fund che videro arrivare il tifone e ci scommisero, con guadagni miliardari) degli eroi.
E poi chi non aveva capito prima, non capirà certo dopo queste due ore. Io sono più possibilista. A giudicare dai posti rimasti in questo venerdì di uscita, praticamente solo la prima fila, e dalla cascata di candidature per i Golden Globe, forse l’unico modo per portare tanta gente in sala era questo.
Ma una cosa per volta. Il film deriva dal libro di Michael Lewis, il più epico cronista di cose finanziarie di sempre, a partire da Liar’s Poker in cui raccontava i suoi esordi come broker alla defunta Salomon Brothers per finire con Flash Boys, la saga di un gruppetto di trader che denuncia le porcate dell’high frequency trading, per cui circa il 60 delle transazioni di borsa viene ormai eseguita in automatico da algoritmi.
La sua grandezza sta nel riuscire sempre a risalire alle persone dietro alle storie, così che anche le formule più arcane e algide si scaldano a contatto con i 37 gradi della temperatura umana. Così conosciamo Michael Burry (Christian Bale; i nomi sono stati cambiati, ma le persone non potrebbero essere più vere), il neurologo leggermente autistico, con occhio di vetro, bermuda e bacchette da batterista sempre in mano, che è il primo a intuire che le mortgage-backed securities, quegli strumenti finanziari che mettono in un solo pacchetto migliaia di mutui diversissimi tra loro, sono una bomba a orologeria.
O l’incazzosissimo Mark Baum (Steve Carell), che sulle prime è scettico che il mercato immobiliare possa crollare ma poi va a vedere in Florida e si accorge che i mutui ora li concedono anche alle ballerine di pole dance, non per una casa ma cinque, senza nemmeno controllare quanto le loro evoluzioni in perizoma rendano ogni mese. Per non dire di Jared Vennet (Ryan Gosling) di Deutsche Bank, che capisce che ci sono montagne di soldi da fare puntando sul fatto che il castello di carte subprime venga giù presto, nonostante le sempre più sbiadite rassicurazioni delle banche.
Fedele alla sua ambizione didattica, il film è costellato da interludi in cui celebrità pop spiegano i concetti più ostici. Come quando il cuoco Anthony Bourdain propone l’analogia tra i mutui più a rischio, quelli col rating BBB, e il pesce di tre giorni. «Lo butto via? No, lo taglio a pezzi più piccoli, lo salto in padella e ci faccio qualche altra ricetta in cui risulta irriconoscibile».
Semplificando, è andata proprio così: dei mutui immobiliari non si è buttato via nulla. Prima le banche conoscevano la persona a cui li concedevano e quante probabilità c’erano (poche) che non pagasse le rate. Poi, illusi che modelli matematici sempre più sofisticati potessero comunque calcolarne i rischi, hanno cominciato a metterne insieme migliaia, cartolarizzandoli, ovvero trasformandoli in strumenti finanziari su cui potevano guadagnare di più. Sin quando gli altri non hanno perso tutto.
I dialoghi, complice Lewis, sono molto convincenti. Gli attori strepitosi. Ci sono alcuni passaggi memorabili, come quando l’analista di Standard & Poor’s, con inspiegabili occhiali da sole in ufficio, nega che ci sia niente di strano nel fatto che nonostante la gente cominci a non ripagare i mutui la sua agenzia non abbia ancora rivisto la valutazione dei Cdo, le obbligazioni che dovrebbero rifletterne l’andamento.
Pressata, confessa: «Se non gli diamo AAA, il punteggio massimo, le banche vanno da Moody’s!». Dovrebbero essere i controllori, quelli che dicono a chi investe dove è sicuro farlo. O quando, a una convention finanziaria opportunamente ospitata a Las Vegas, al termine di un cocktail con un grande spacciatore di Cdo, Baum dà ordine ai suoi di shortare di scommettere sul fallimento di «ogni cosa che quel tipo abbia toccato».
Quando due giovani trader di questo branco di lupi solitari capiscono che stanno per diventare ricchi perché il Grande bluff sta per saltare, festeggiano sguaiatamente sino a quando Brad Pitt, la voce della ragione, li cazzia: «State celebrando il collasso della società, il fatto che milioni di persone perderanno la casa e il lavoro».
La vittoria dei protagonisti coincide con la sconfitta di tutti noi. Eppure il dispositivo narrativo ci fa simpatizzare per loro. A domanda specifica, il regista ha risposto che non esistono eroi totalmente puliti, Martin Luther King aveva amanti e anche Gandhi era sempre arrapato. Non è proprio la stessa cosa. Però il film è bello e, per chi si è distratto negli anni passati, anche utile.