Marco Giusti per Dagospia
Che bomba! E che botte! Per tutta la prima parte di questo scatenatissimo, stilosissimo “Monkey Man” diretto e interpretato da Dev Patel con una mano rotta negli scontri di taekwondo dove si mena proprio lui con la maschera da scimmia in onore di Hunaman, il dio-scimmia, assistiamo a un crescendo incredibile di ritmo e violenza tra “Kill Bill” e “John Wick 4”, ma decisamente più sentito, quasi mistico.
Perché Dev Patel, finissimo attore inglese di origini indiane, lo abbiamo visto in “The Millionaire”, “Sir Gawain e il Cavaliere Verde”, in “David Copperfield”, costruisce quello che di fatto è un puro revenge movie come un inno alla purezza del mito di Hanuman, che in Cina è noto come Sun Wukong o lo Scimmiotto. Il dio della giustizia e della forza. Anche se nella seconda parte, a parte il grande incontro con la comunità trans indiana, che ricuce e riprogetta il Monkey Man di Dev Patel per la lotta finale contro il potere corrotto del paese, ci sono parecchie ripetizioni un po’ inutili, è evidente quello che ha visto un genio del cinema di genere politico come Jordan Peele quando ha salvato il film di Dev Patel dal limbo di Netflix dove sarebbe facilmente morto in mezzo a tanti action-thriller.
Peele, con la sua produzione, la Monkeypaw (non sarà un caso…) legata alla distribuzione della Universal, ha comprato il film, ha sostituito la musica di Volker Bertelman con quella scatenatissima di Jed Kurzel, ha probabilmente rimontato qualcosa, ha tolto una scena di stupro che lo avrebbe massacrato in sala con un divieto pesante, e ne ha fatto un prodotto alla John Wick, certo, ma dalla forte carica politica contro i poteri sovranisti indiani. Il ragazzo senza nome di Dev Patel, che lotta sul ring con la maschera da scimmia e si fa massacrare per denaro per la gioia del pessimo Tiger, Sharito Copley, pensa solo a come vendicarsi dell’orrendo capo della polizia che ha stuprato e ucciso sua madre sotto i suoi occhi anni prima.
Per farlo ha bisogno di entrare nel bordello di lusso dei miliardari e dei potenti del paese. Lì potrà avvicinarsi al mostro che ha ucciso la mamma e vendicarsi. Lo aiutano un buffo guappetto con una gamba sola, Alphonse, interpretato da Pitobash, una bella prostituta, Sobhita Dhulipala, e una clamorosa comunità di trans che ne fanno una macchina perfetta di calci e pugni.
Progetto a lungo ideato da Patel, che doveva giralo in India e ha poi dovuto farlo in indonesia per il Covid, girato con pochi mezzi, al punto che tante riprese sono fatte col telefonino, con infiniti incidenti sul set, dita e mano rotte dello stesso protagonista-regista, deve molto al salvataggio di Jordan Peele, che ne ha fatto qualcosa che ne rispetta profondamente il progetto artistico e mistico e solo togliendolo da Netflix lo ha salvato dalla salamoia dove sarebbe sembrato indistinguibile da tanti altri film di botte. E botte. E botte. Esce contemporaneamente anche in America e vediamo come funzionerà. In sala.
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