Marco Giusti per Dagospia
Ritorna il cinema. Ritorna Spielberg anche se in versione da cinema d’autore autobiografico. Un po’ da vecchi, insomma. Come sono ormai i suoi spettatori. Come spiega il John Ford interpretato da David Lynch, il momento più curioso e divertente del film, le riprese con un orizzonte basso o con un orizzonte alto sono interessanti, quelle con un orizzonte medio sono di una noia mortale.
Il problema con “The Fabelmans”, ultimo, commovente, autobiografico film diretto da Steven Spielberg, che lo ha scritto con un drammaturgo potente come Tony Kushner, che può vantare una musica meravigliosa di John Williams, un direttore della fotografia coma Janusz Kaminski e già 5 nominations ai Golden Globes, è che spesso l’orizzonte sembra non puntare né in alto né in basso. E l’interesse per quel che stiamo seguendo, anche se le battute sono tutte di grande livello e gli attori pure, cala. Perché, anche se pochi al mondo possono vantare una messa in scena come quella di Spielberg, se una storia non ti prende del tutto, il film ne soffre.
E la storia della famiglia Fabelmans/Spielberg, con il padre, Burt, cioè Paul Dano, ingegnere elettrico che lavora nello sviluppo dei computer prima a Phoenix, Arizona, per la General Electric poi a Los Angeles all’IBM, la mamma, Mitizi, Michelle Williams, pianista con troppi figli e un marito troppo assente che si innamora del suo miglior amico, Bennie, Seth Rogen, non è certo né un western né un avventuroso alla Indiana Jones, non ha grandi risvolti drammatici da offrire, per quanto Spielberg e Kushner tentino di agitare la situazione con inserimenti di altri personaggi, come le nonne, Jeannie Berlin (favolosa) e Robin Bartlett, il buffo zio Boris, Judd Hirsch, dispensatore di saggezza ebrea, o con dialoghi brillanti un po’ teatrali.
E ancora meno, forse, ne ha la passione per il cinema del giovane protagonista Sammy, interpretato da Gabrielle Labelle, che inizierà a filmare i primi film amatoriali in 8mm o super8 aiutato con le sorelline come attrici. Direte che sono senza cuore. Ma tutti noi vecchi appassionati di cinema nati negli anni ’50 abbiamo girato cose in 8 mm e super8, abbiamo aspettato lo sviluppo della pellicola kodak frementi. Conosciamo perfettamente il tipo di innamoramento per il cinema. Vederlo e farlo. E trovo l’inizio del film con la famiglia Fabelmans che va a vedere “Il più grande spettacolo del mondo” di Cecil B. De Mille e il piccolo Sammy che rimane impressionato dalla scena del treno che deraglio strepitoso.
E, esattamente come facevo io a casa, cerca di ripetere proprio quella scena nel gioco, in questo caso col trenino che gli ha regalato il padre per le feste di hannuka. Lì Spielberg ci spiega perfettamente cosa sia l’amore per il cinema, il desiderio continuo di fissare i momenti dei grandi film visti da piccoli in sala nella vita di tutti i giorni. Di ripetere il sogno visto sullo schermo. Di possederlo. Ma poi scende un filo troppo sul particolare, sulla sua filmografia da ragazzino, comprensiva anche di western e film di guerra oltre ai filmini di famiglia.
Tutto regolarmente vero, come leggo scorrendo la biografia del regista, con tanto di tappe a Phoenix e poi a Los Angeles. Magari saranno un po’ più inventati gli scontri con i ragazzi cattolici a Los Angeles, la scoperta del sesso e del 16 mm, con la mitica Arriflex… Certo, in un Festival non proprio compatto, senza grandi punte, un film cinefilo e comunque di grande attrattiva come “The Fabelmans” ci voleva.
Magari ci voleva anche uno Spielberg o una Michelle Williams in carne e ossa a presentarlo, diciamo, ma già così il Presidente Farielli e il direttore Malanga riempiono una serata di pubblico un filo annoiato, due ore e mezzo…, ma in generale abbastanza appagato. Specialmente dopo la valanga di film italiani che ci sono state e ci aspettano i prossimi giorni. In sala dal 22 dicembre… Lo trovate anche al Sacher di Nanni Moretti.
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