Giancarlo De Cataldo per “la Repubblica”
«La musica esprime quello che costituisce la comunione delle anime, l'emozione pura e indeterminata, la possanza emozionale dell'animo». Fra il 1915 e il 1919 un giovanissimo Antonio Gramsci tiene sull'Avanti! rubriche di teatro e musica. E se le cronache teatrali sono ampiamente note - fu Italo Calvino a riscoprirle negli anni Cinquanta -, quelle musicali sono rimaste in parte inedite sino a questo prezioso volumetto curato da Maria Luisa Righi e Fabio Francione: è la stessa Righi, peraltro, ad attribuire a Gramsci, sulla base di un'accurata ricognizione filologica, alcuni dei pezzi più interessanti, in origine anonimi.
La raccolta rivela un Gramsci per certi versi inedito: nonostante alcune precise testimonianze dirette, lo si è ritenuto a lungo poco interessato alla musica. E, invece, da queste pagine emerge molto più di uno spettatore colto o di un "cronista" culturale, come soleva definirsi, rifiutando, a suo dire per carenza degli strumenti del mestiere, la definizione di "critico". Per il Gramsci socialista, la musica, come il teatro, la narrativa, la poesia, è un poderoso veicolo di crescita e affrancamento del proletariato.
«L'umanità sarà migliore e meno violenta quanto più si avvicinerà a Beethoven» scrive in piena Prima guerra mondiale, quando i soliti idioti vogliono proibire la Quinta Sinfonia perché Ludwig Van era tedesco, dunque nemico. Beethoven «impone silenzio, agita, trasporta, violenta le anime elevandole a vette vertiginose () è la bufera che travolge e sconvolge ogni bassezza d'animo, che fortifica e umilia, che offende i vili e spinge i buoni».
Ma come "portare" Beethoven al proletariato, che la Storia ha tagliato fuori dal gusto del bello? Eppure, «il cuore proletario è un tesoro immenso ed ancora inesplorato di sensibilità artistica». Basta solo coinvolgerlo. E qui il discorso si fa attualissimo, e sarà ripreso nei Quaderni dal carcere .
Riguarda la dicotomia fra l'intellettuale che "sa", cioè possiede gli strumenti di conoscenza, e il popolo che "sente", ma non "sa", perché di quegli strumenti è ignaro. «Non si fa storia politica senza passione, cioè senza essere sentimentalmente uniti al popolo». La musica, come tramite formidabile di un agire e sentire politico e culturale: Gramsci, suo grande ammiratore, conoscerà Arturo Toscanini e lo convincerà a dirigere Beethoven per gli operai. E Toscanini dirà alla Stampa di aver provato una delle più grandi emozioni della vita.
Ma ci sono pagine più leggere, in cui il pensatore profondo cede il passo allo spettatore. Uno spettatore esigente, che non esita a ricorrere al sarcasmo: «al Liceo musicale. Serata grigia. Sgonnellamenti serici di scimmiette ammaestrate dell'aristocrazia che vengono a farsi titillare i nervi dai decolletès delle rivali e dalla musica di Beethoven. Un ufficiale di marina; marsine e frack che fasciando del vuoto non si sa come rimangon dritte () La mia fantasia si liquefà nell'ardente fornace animalesca in cui è caduta () l'ambiente finisce per conquistare anche me. Anche il mio modesto abito di proletario non fascia che il vuoto».
Gramsci è melomane di gusti netti e precisi. Detesta Puccini, «elegiaco e smanceroso », e riserva alla Rondine un'acre stroncatura: «melodramma senza passione, operetta senza giocondità () né soddisfa i commessi viaggiatori che amano le freddure da vaudeville () né commuove i pizzicagnoli smaniosi di rifarsi del denaro speso, innaffiando di lagrime l'avverso destino del tenore e della prima donna».
Ironizza sulla Lodoletta : «Mascagni si compiace tanto da strafare. Si ha l'impressione che tratto tratto si consegni dei pizzicotti sulla punta del naso per far che duri questo suo provvidenziale intenerimento. E Flammen non si stanca di sospirare, e Lodoletta non si decide a morire».
Adora Verdi, si commuove ed esalta per un Rigoletto al Politeama Chiarella (che anni dopo diverrà tempio dei Futuristi), loda il Tristano , esalta grandi concertiste, come la pianista Helena Morsztyn, e in generale mostra estremo rispetto per quanti - cantanti, coristi, strumentisti - "fanno" la musica, con la loro presenza, con il loro lavoro. E, infine, affiora a volte l'insoddisfazione per il manierismo che sembra affliggere la scena musicale.
«Per la musica siamo in pieno umanesimo. I classici ritornano a ogni stagione, la sensibilità rimane limitata, un po' accademica (un po' per eufemismo) la solita buona vecchia musica, che il pubblico accorre sempre a sentire, che il pubblico impara a memoria», consegnandosi a una vita culturale che è diventata «un'esumazione di impressioni imbalsamate». Gramsci avverte l'urgenza di qualcosa di più, qualcosa di nuovo, qualcosa di rivoluzionario. Sono passati cent' anni, e quell'urgenza la avvertiamo ancora in tanti.