Adriana Marmiroli per “lo Specchio - la Stampa”
È la stagione televisiva degli «unicorni», questa. Non nel senso del fantasy per bambini, ma dei giovani sedicenti geni che, cavalcando le meravigliose sorti progressive dell'economia digitale, in pochi anni (se non mesi) hanno creato start up valutate miliardi di dollari e che con questo termine vennero/sono definiti. Pochi ma leggendari.
Le loro sono storie di successi ma anche - talvolta - di travolgenti insuccessi: questi ancora più appassionanti da trasformare in fiction, dopo aver tenuto banco nella cronaca e nell'economia.
Sono storie di un neocapitalismo che, nato con l'apparente idea di rivoluzionare il mondo del business per renderlo più umano, si è poi rivelato più rapace di quello vetero. Bel posto davvero la mitica Silicon Valley negli anni a cavallo del primo decennio del nuovo millennio, che ha generato i supericchi vincenti, i Paperoni Jobs, Bezos, Musk, Zuckerberg e compagnia bella (anche loro con periodi bui, scheletri negli armadi e "cadaveri" eccellenti alle spalle), ma anche scandali clamorosi: Adam Neumann di WeWork (spazi di coworking), Travis Kalanick di Uber (servizio di taxi diffuso via app), l'imbrogliona Elizabeth Holmes di Theranos (spacciò la realizzazione di rivoluzionarie macchine per l'analisi del sangue). Storie che arrivano in tv dalla realtà e che fanno domandare: ma davvero è stato possibile?
Emblematico, e ultimo in ordine di tempo ad arrivare da noi in tv, è Super Pumped: The Battle for Uber, (Paramount+): miniserie ideata da Brian Koppelman e David Levien, non a caso già autori di Billions, avvincente serie con Paul Giamatti e Damian Lewis che ha raccontato l'alta finanza e gli hedge fund. A partire dall'omonimo libro di Mike Isaac del New York Times, Super Pumped ricostruisce l'ascesa selvaggia di Kalanick, che a San Francisco ha l'idea di una app che mette in contatto autisti e utenti senza passare dalla mediazione (costosa) delle compagnie di taxi: Uber appunto (all'inizio UberCab).
L'idea è bella e pare funzionare (riesce anche ad aggirare le suddette potenti lobby dei tassisti), occorrono però soldi e tanti per crescere. Inizia una girandola di milioni che diventano miliardi: Uber si diffonde e vince in tutto il mondo. Ma Kalanick deraglia, si scontra con l'impossibile, si scoprono le frodi che ha commesso per lanciare la sua creatura, il sessismo che ha permesso strisciasse in azienda: dopo avere tradito tutti, viene lasciato solo e fatto fuori dalla sua società. Non senza un congruo, più che ben retribuito, mucchietto di dollari che userà per inventarsi altre start up.
Al di là dell'ascesa mondiale di Uber, la serie - di cui è stata approvata una stagione 2, sempre imperniata sulle vicende di un'azienda altrettanto emblematica dell'epoca e di cui Quentin Tarantino è la voce narrante nell'originale - ruota attorno alla contrapposizione tra il rampante Travis e il guru del venture capitalism Bill Gurley: ed è forse la parte più debole, a tratti un po' troppo manichea, con Kalanick cattivo contro Gurley buono.
Joseph Gordon-Levitt e Kyle Chandler li interpretano in modo eccellente, mentre in ruoli minori ci sono Elisabeth Shue e una quasi irriconoscibile Uma Thurman, nei panni di Arianna Huffington, fondatrice dell'omonimo Post. Detto questo, complice lo sfondamento della quarta parete (tecnica sempre più usata da House of Cards per fare empatizzare il cattivo di turno con il pubblico), ci si affeziona quasi a Kalanick, trascinati dal ritmo nervoso della storia e dalla sua personalità incontrollabile, narcisista e carismatica, capace di affascinare e imbrogliare, attrarre e muovere miliardi in nome di un'idea totalizzante per cui è pronto ad andare ben oltre la legalità.
super pumped 1 travis kalanick