Roberta Scorranese per “Sette - Corriere della Sera”
Giorgia Soleri è una delle personalità più seguite (oltre 650mila follower solo su Instagram) e discusse degli ultimi anni. E forse il fatto di essere la fidanzata di Damiano David, frontman dei Måneskin, c’entra fino a un certo punto. Soleri è una rara cristallizzazione di contraddizioni aperte: bellissima nei suoi ventisei anni, è diventata il simbolo di chi soffre di dolore cronico.
Libera nel linguaggio e nel mostrarsi sui social, in questa intervista racconterà anche il cunicolo buio della depressione. Lontana dalle bellezze levigate e «filtrate» su Instagram, parla di vulva e poesia, con una freschezza che ispira simpatia.
Perché ha voluto intitolare il suo libro di poesie La signorina Nessuno?
damiano david e giorgia soleri a montecitorio per la proposta di legge sulla vulvodinia
«È un personaggio che mi tiene compagnia da anni. Quando la mia relazione non era ancora nota, io, in fondo, ero la signorina Nessuno. E nelle poesie parlo di solitudine e di amore, di dolore e di cose riacchiappate per un soffio. Oggi un nome ce l’ho, e posso dire che c’è anche tanta codardia in quel soprannome».
Perché?
«Perché avevo paura a chiamare le cose con il loro nome. Vulva, per esempio. Oggi pronuncio e scrivo questa parola, ma non è stato facile diventare amica del mio corpo».
Un corpo che adesso è diventato uno strumento di battaglie politiche.
«Ho cominciato a fare la modella a sedici anni per pagarmi le attrezzature fotografiche. Ho sempre voluto fare fotografie e scrivere. Ripenso a quel periodo con un brivido. Vivevo male il mio corpo, lo sentivo come qualcosa che dovevo “vendere” per lavorare. Poi è arrivato il dolore. Lancinante, terribile, che parte dalla vulva e si irradia alla vescica, notti senza sonno e nessuno che ti prende sul serio. “Ho la cistite”, dicevo. E quelli accanto a me, con sarcasmo: “Ancora?!”. Quando è arrivata la diagnosi sono uscita dallo studio del medico e ho cominciato a piangere».
Giorgia Soleri La signorina nessuno 2
Vulvodinia e neuropatia del pudendo. Il comitato da lei guidato ha portato in Parlamento una legge per riconoscerle come malattie croniche e invalidanti.
«Non è facile raccontarsi quando si possiede un corpo che è, al tempo stesso, molto bello e portatore di un dolore fisico indicibile. Mi sono operata nell’estate del 2021 per l’endometriosi e per un po’ sono stata bene. Poi qualche tempo fa, il dolore è tornato. Feroce. Sono rimasta a letto per settimane, le amiche facevano i turni per sollevarmi a braccia per farmi andare in bagno o per farmi mangiare. E allora ecco i farmaci. Oppioidi, fortissimi. Avevo le allucinazioni. Ora va meglio, ma so già che dovrò fare i conti con questo per sempre».
Che infanzia è stata la sua?
«Difficile. Nata a Milano, i miei si sono separati che avevo quattro anni. E si sono separati male: mio padre aveva dei problemi (che poi ha risolto), mia madre ha chiesto l’affido esclusivo. Io nel mezzo. Cresciuta senza vedere mio padre per anni, mi ero quasi rassegnata quando, qualche settimana fa, lui si è presentato a sorpresa alla presentazione del mio libro. Non credo che si debba parlare di perdono ma di comprensione. I genitori non sono supereroi ma persone normali, che sbagliano, che soffrono, che hanno diritto a essere capiti come uomini e donne».
È stato da bambina che ha iniziato la psicoterapia?
«Più tardi, ma è stata utile per fare luce sulle mie ombre. Oggi comprendo che è tutto collegato: la depressione di cui ho sofferto, il dolore, l’ansia di libertà, l’aborto a 21 anni, il percorso femminista. Oscillo tra il buio e la luce, tra l’istinto a nascondermi e quello a liberarmi, anche dei vestiti. Certo, nel 2017 ho toccato il fondo e mi sono salvata per il rotto della cuffia».
Cioè?
«Ho tentato il suicidio. Ero depressa ma non lo sapevo, come capita a tante persone. Anche la depressione ha i suoi segnali ma possono essere diversi da persona a persona. Io stavo sempre a letto, quello che mi avrebbe potuto stimolare non lo faceva più. Poi ho provato a togliermi la vita. Ero arrivata al punto zero, potevo solo risalire o soccombere. Mi ha salvata mia madre: l’hanno avvisata, è venuta a prendermi, mi ha portato a casa sua e sono rimasta lì due mesi. Di nuovo farmaci, speranze, qualche illusione. Il malessere che poco per volta cede il posto a una forma di lucidità. Quanto vorrei che questi miei racconti fossero utili a qualcuno».
Lo sono. Non crede?
«Mi hanno accusata di speculare sulla mia malattia, me ne hanno dette di ogni. Ma quando arriva una ragazza che mi scrive “Grazie a te ho dato un nome al mio dolore” allora scompare tutto».
Ha tanti «haters» sui social?
«Penso che i social siano uno specchio della realtà che viviamo. E io non dimentico che è stato grazie a un confronto sui social che ho intuito di avere la vulvodinia, poi confermata da una diagnosi. Certo, poi quando arriva tale Giacomo che pretende di spiegare a me il valore etico della depilazione, be’, allora mi viene da ridere».
Già, le ascelle non depilate e mostrate su Instagram.
«Ho cominciato con la vulva, per ragioni mediche. Mi piacevo, così ho smesso di depilare le gambe e le ascelle. Adesso ho smesso di togliere il baffetto e l’arco tra le sopracciglia. Sembra che la normalità sia essere senza peli e non scegliere di depilarsi. È questo che mi impressiona: il nostro corpo, il corpo delle donne, è ancora un terreno di battaglia eccome. Non voglio provocare, voglio solo dire alle ragazze di cominciare a stare bene con sé stesse».
Pensa di continuare con la poesia?
«Mi piacerebbe. In generale vorrei continuare a scrivere e a fare fotografie. Vivo da sola, faccio un bel lavoro, ho due gatti e leggo decine e decine di libri. Arminio, Cavalli, Pozzi. Ho comprato un’altra libreria, sa? E cerco di godermi i momenti senza dolore».
Come ha incontrato Damiano?
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«Non lo sa nessuno e non lo dirò. Lo spazio privato per me ha ancora un valore».