Dario Pappalardo per “la Repubblica”
Italians sell better. Gli italiani vendono meglio. La loro arte, almeno. Nonostante la crisi, nonostante un sistema di musei e gallerie che non riesce a fare rete, il contemporaneo prodotto nel nostro Paese all’estero va fortissimo.
Nel 2015 l’Italian Sale di Sotheby’s ha superato i 62 milioni di dollari; quella di Christie’s ha fatto altrettanto e non era mai accaduto prima: soltanto “Concetto spaziale — La fine di Dio” di Lucio Fontana ha totalizzato oltre 29 milioni di dollari. Secondo i dati di Artprice, il made in Italy rappresenta quasi il 3 per cento del mercato internazionale delle grandi vendite.
In uno scenario dove primeggiano da sempre Stati Uniti e Gran Bretagna non è poco. Per quotazioni, gli italiani sono al quinto posto nel mondo dopo americani (39,9%), cinesi (21,2), tedeschi (10,9) e britannici (10,8). Superano giapponesi, indiani e addirittura i cugini francesi, fermi allo 0,8 per cento, ma molto più attenti agli incentivi e alla valorizzazione della loro arte sul territorio nazionale.
L’Italia gode ancora della credibilità del suo passato, che si riflette sulle ultime generazioni. Lo scorso 8 maggio da Christie’s a New York Maurizio Cattelan ha segnato il suo record personale: con 17,2 milioni di dollari raccolti in cinque minuti,
Him, una delle quattro sculture di Hitler da lui prodotte nel 2001, è stata il pezzo forte della vendita Bound to Fail. Poco importa se siano circolate voci su una “cospirazione” per rilanciare un artista fermo da un po’ sul mercato. E se qualcuno abbia ipotizzato che dietro l’asta show ci fosse lo zampino dorato di François Pinault, collezionista di Cattelan e padrone assoluto di Christie’s. Il mercato dell’arte ha riacceso la luce sull’Italia.
Nella stessa serata newyorchese, anche Paola Pivi ha registrato il suo massimo: 227 mila dollari — il triplo del valore di stima — per Untitled ( Donkey), risultato ottimo per una fotografia.
Con Cattelan e Pivi, nati rispettivamente nel 1960 e nel 1971, l’artista italiano vivente più quotato è Rudolf Stingel (1956), che tra il 2014 e il 2015 ha venduto opere per oltre 22 milioni di dollari, guadagnandosi la posizione numero 11 nella Top 500 di Artprice: nato a Merano, vive a New York dal 1987 e non rilascia interviste; in Italia la sua ultima grande mostra risale al 2013, a Palazzo Grassi.
I tre appartengono tutti alla scuderia di Massimo De Carlo, che è ormai il kingmaker del contemporaneo italiano. «Noi galleristi veniamo percepiti come una sorta di diavolo che organizza e manipola il mercato da dietro le quinte, ma non è così», spiega lui. Quindici anni fa, l’Hitler di Cattelan era stato acquistato proprio nella sua galleria dal finanziere americano David Ganek, che poi l’ha venduto attraverso Christie’s.
«Il gallerista classico come me, quello che lavora al fianco degli artisti, non c’entra nulla con le quotazioni che fanno notizia — continua De Carlo — Him è un vero capolavoro, ma non l’abbiamo più da molti anni. Le case d’asta sono in grado di creare un sistema di mercato intorno alle opere d’arte che per noi sarebbe impossibile, ne interpretano e modificano la storia.
Gli italiani funzionano molto bene. Tutto questo succede in un mondo dell’arte per nulla strutturato. Non ci sono istituzioni locali che mantengono gli archivi degli artisti. Il territorio italiano è frammentato, ci sono tantissime gallerie e collezionisti nella provincia. Nonostante questo, l’arte italiana all’estero va bene».
Le grandi aste internazionali sono solo la rappresentazione glamour di una realtà del mercato ben più complicata, però. «Le aste spesso non rappresentano né il valore di mercato, né la qualità degli artisti — dice Vincenzo de Bellis per quattro anni alla guida della fiera milanese Miart e ora curatore del Walker Art Center di Minneapolis — I picchi clamorosi sono sempre sospetti. Ma con gli italiani accade qualcosa di diverso.
L’arte italiana ha avuto sempre un peso importante anche quando non raggiungeva questi valori. Altrimenti non si spiegherebbe perché da più di quindici anni Christie’s e Sotheby’s lanciano le Italian Sale interamente dedicate al contemporaneo italiano. Non ci sono French o British Sale. Anche le istituzioni internazionali sono molto più attente ai nostri maestri: personalità come Luciano Fabro o Alighiero Boetti sono state celebrate al Guggenheim di New York, prima che in Italia». Ma una vendita record all’estero ha una ricaduta effettiva su tutta la filiera dell’arte contemporanea italiana?
«Il successo internazionale dell’arte italiana del dopoguerra non è necessariamente di sostegno alle generazioni successive — dice Alessandro Rabottini, neo direttore di Miart e curatore del museo Madre di Napoli — La figura chiave per lo sviluppo di una carriera è il collezionista.
I primi collezionisti di un artista sono sempre quelli della sua nazione. La differenza per il futuro di una carriera la fanno se poi continuano a seguire uno stesso autore. Gli artisti italiani soffrono il momento medio del loro percorso: quando cominciano a costare di più, ma non sono diventati ancora classici. Accade tra i 45 e i 50 anni: qui davvero si decide tutto ».
E i musei d’arte contemporanea italiani sostengono gli artisti del Paese? «In termini di mostre sono attenti — precisa Rabottini — Il problema vero è che i musei italiani per i loro budget non sono in grado di comprare le novità. E così faticano a restituire la storia successiva all’Arte Povera ».
Ma cosa deve avere un artista italiano per salire sulla scena internazionale? «Se penso a Cattelan, Pivi e Stingel, dico che li unisce il fatto di non gravitare sull’Italia — dice Massimo De Carlo — Ma certo non basta. Ci vogliono tempo e lavoro per costruire una carriera». Paola Pivi, che, dopo l’Alaska, vive in India da cinque anni, ma si sente “orgogliosamente italiana”, risponde: «Il mio segreto di fabbrica è di tenere l’aspetto economico e quello artistico separati come l’olio e l’aceto, una fortissima scaramanzia ».
Rudolf Stingel ripete come un mantra «non occupatevi di me». Una volta, in un incontro pubblico a Bolzano, ha detto che per riuscire in questo mestiere è fondamentale lo scambio con gli altri artisti. «Se i colleghi iniziano a visitare le tue mostre, a parlare di te, allora ce la puoi fare».