Marco Molendini per Dagospia
Henry Grimes era già morto almeno un paio di volte, tanti anni fa, prima di morire davvero, due giorni fa, anche lui travolto dal corona virus a 84 anni.
Bassista dal suono gigantesco, dalla tecnica sopraffina e dal forte temperamento, presente in tante registrazioni accanto ai nomi grandi del jazz, da Thelonious Monk (in uno dei più bei documentari su questa musica Jazz on a summer day, registrato nel 1958 a Newport, è accanto al pianista e a Roy Haynes mentre suonano Blue Monk), a Sonny Rollins, a Gerry Mulligan, ai campioni dell'avanguardia free, Archie Shepp, Albert Ayler, Cecil Taylor (nel suo album più bello, Conquistador) a un certo punto è letteralmente scomparso dalle scene.
Non si sapeva più nulla di lui e dove fosse finito. Venne dato per morto: chissà dove, chissà quando. La prima notizia della sua scomparsa l'aveva lanciata Valerie Kilmer, fotografa e scrittrice molto addentro al mondo del jazz. Era il 1971. Un'altra volta nell'84, fu un giornale ad annunciarla.
Ma Henry non era morto. Aveva semplicemente smesso di suonare. E per anni ha vissuto nel silenzio finchè un appassionato di jazz, un assistente sociale non è riuscito a scovarlo. Era il 2002, più di trent'anni dopo. Marshall Marrotte si era appassionato a Henry Grimes un pomeriggio del 1986, entrato in un negozio di dischi di New Orleans gli era capitato di ascoltare The Call, l’unico album da leader mai inciso fino ad allora dal bassista: «Le note del suo strumento mi hanno messo letteralmente al tappeto. Mi è venuto un capogiro» il suo racconto.
Fatto sta che da quel giorno ha cominciato a raccogliere informazioni su Grimes. «Ho sentito le cose più strane – ha raccontato -: che era morto, che aveva abbandonato la musica e si era fatto prete, che aveva seri disturbi mentali, che viveva in mezzo a una strada, che s’era fatto i capelli verdi, che si era messo a suonare il basso elettrico in una rock band... ». L'assistente sociale si intestardisce, vuole capire cosa è successo per davvero e comincia a indagare approfonditamente: testimonianze di musicisti e amici, della famiglia, archivi di giornali, di preture, certificati di morte. Alla fine ce la fa: rintraccia Grimes in un pidocchioso albergo di South Central, Los Angeles.
Quando gli chiede perché sia sparito per tanti anni il bassista gli risponde con la più semplice delle constatazioni: «Con il jazz non ce la facevo a vivere». Aveva provato con il teatro. A un certo punto aveva venduto il suo contrabbasso, infine si era arrangiato come poteva, fra lavoretti, aveva fatto il guardiano alla sinagoga di LA, e i soccorsi della social security, combattendo anche con problemi mentali, una sindrome maniaco-depressiva.
Come un redivivo Grimes è tornato a suonare, con la leggenda della sua storia, del suo passato di jazzista di prima fila e un contrabbasso regalato da un giovane collega William Parker. Ha ripreso il cammino dove l'aveva lasciato, conservando il suono potente dello strumento, ritrovando antichi colleghi come il batterista Andrew Cyrille, collaboratore per anni di Cecil Taylor. Ha girato il mondo, è sbarcato anche in Italia, ha fatto più dischi a suo nome di quanti non ne avesse fatti nella sua prima vita, ha suonato con Marc Ribot. E' stato festeggiato come un Robinson Crusoe del jazz.
La sua morte segue quella di una pattuglia di jazzisti longevi, una rarità per questa musica, e di poche ore quella di un altro protagonista eccentrico del jazz degli anni 60, il sassofonista Giuseppi Logan.