Paolo Baldini per il “Corriere della Sera”
Vive di slanci, cambi di rotta, emozioni sparse. «Sono così da quando, bambina, dicevo che volevo diventare un medico per ragioni umanitarie».
Curiosa, pronta a spendersi.
Ha abitato a Barcellona, Roma, Parigi, New York. Ottanta film, grandi produzioni e magnifiche scommesse, «sempre rischiando in prima persona». Il successo arrivato come un fulmine a ciel sereno.
Anni di studio, ricerca, approfondimento. «Sì, sono una capatosta, pronta a rimettersi sempre in discussione». Capace di costruirsi una carriera internazionale: Godard, Minghella, Branagh, Figgis, Ferrara.
La prossima svolta di Stefania Rocca, l'attrice di Nirvana, La bestia nel cuore e Viol@ , si chiama regia: «Sento il desiderio di creare mondi miei. Finora sono stata all'interno del videogioco creativo di altri. Adesso quel videogame mi piacerebbe programmarlo. Ma senza mai dimenticare che sono un'attrice».
Ha un marito, Carlo Capasa, imprenditore e presidente della Camera della moda, e due figli: Leone, 14 anni, e Zeno, 12. «Ci siamo sposati durante una vacanza a New York con i bambini. Un lampo: nevicava, faceva freddo e non avevo il vestito adatto. È stato buffo».
Ha portato in teatro Il silenzio grande di Maurizio De Giovanni insieme a Massimiliano Gallo, regia di Alessandro Gassmann. Ha nel cassetto una sceneggiatura nata nei mesi del lockdown, ispirata al romanzo L'ora di tutti di Maria Corti: diventerà un film di cui sarà regista. Prepara per la prossima stagione il monologo La madre di Eva , dal libro di Silvia Ferreri: l'attesa di una donna fuori dalla sala operatoria, in una clinica di Belgrado, mentre la figlia, 18 anni, si sta sottoponendo all'intervento che la trasformerà in un uomo.
Messaggio coraggioso.
«Sii sempre te stessa, non preoccuparti di essere diversa. Ma nel testo non c'è solo il tema transgender. Si parla anche del rapporto madre-figlia, dello scontro generazionale».
Il tema della diversità l'affascina?
«Non bisogna temere il confronto perché ci aiuta a far affiorare il nostro modo di essere speciali. E neanche i giudizi del prossimo. La diversità è creatività, è mettersi in gioco. Mi piacerebbe che il messaggio fosse recepito a pieno dal mondo del cinema e delle serie tv».
Com' era Stefania prima del cinema?
«Una ragazza studiosa ma non secchiona. In cerca di libertà e di indipendenza. Osservatrice, sognatrice. Con molti amici e un forte senso del dovere. Rispettosa delle regole di famiglia. Ho iniziato giovane a lavorare: preparavo contributi video per le convention. Esperienze che porto ancora con me. La famosa valigia dell'attore».
La famiglia era con lei?
«Quando dicevo "voglio fare l'attrice", papà attaccava: studia, Stefania, che è meglio! Pensava che mi passasse, che alla fine avrei cambiato idea e amen. All'università scelsi psicologia, scienze dell'alimentazione, indirizzo scientifico.
Intanto mi informavo sulle scuole di recitazione.
Luca Ronconi era un idolo per me. Lo incontrai nel giorno sbagliato. Provava e dirigeva tempestosamente gli allievi. Mi spaventai a tal punto da decidere di cambiare città. Avevo la sensazione che allontanarmi da Torino avrebbe giovato alla mia ricerca. Volevo mettermi in gioco».
Così a 22 anni andò a Roma per iscriversi al Centro sperimentale di cinematografia.
«Dissi a papà: devo provarci, non posso vivere con il rimpianto per sempre. A Roma facevo una vita bohemienne . Mi mantenevo lavorando in un pub, la Compagnia delle Indie. Andò bene. Feci le prime cose. Arrivò Nirvana . Incontrai Gabriele Salvatores, un maestro, curioso quanto me».
Poteva dirsi arrivata. Invece?
«Andai a vivere a New York. Frequentavo l'Hunter College High School. Quando ne sono uscita parlavo l'inglese con un curioso accento giapponese. Volevo approfondire il Metodo e mi iscrissi all'Actors Studio. Mi consigliarono di prendere un coach e ripulirmi la dizione. Intanto per mantenermi facevo i cappuccini al Caffè Dante e i cocktail al Lucky Strike a Manhattan.Nirvana era appena uscito. Lo presentammo al Festival di Cannes mentre ero completamente immersa nella nuova avventura».
In Usa incontrò Jean-Luc Godard.
«Girammo Inside/Out . Lui faceva il produttore-tutor, regista era Rob Tregenza. Set sui monti del Maryland. Neve pazzesca e noi chiusi in casa.Il film era muto, tutto piani sequenza. Riproduceva un dentro e un fuori . Dentro, i pazienti, disturbati. Io facevo parte del mondo di fuori. Ero una volontaria borderline. Con me, un prete ex soldato di guerra. Godard voleva raccontare quanto fosse evanescente il confine della follia.Gli studi di psicologia mi furono molto utili».
Godard che cosa vi chiedeva?
«Era taciturno. Sul set non aveva preamboli. Non si rivolgeva a noi, ma ai nostri personaggi. Si presentava e mi diceva: eh, perché oggi non mi hai dato la pastiglia? Dopo quattro settimane di isolamento gli chiedemmo: Jean-Luc, per favore, facci parlare almeno tre minuti, se no andiamo fuori di testa davvero. Stette al gioco. Disse: ok, ognuno di voi scriva un monologo sulla sua parte. Demmo il massimo, ma lui non montò mai quei frame . Però alla fine ce li regalò. Il mio l'ho perso in un trasloco».
Un peccato.
simona cavallari stefania rocca amiche davvero!
«Sono disordinata per vocazione. Ho smarrito tutte le mie fotografie. A Parigi, quando ho conosciuto mio marito Carlo, ho messo i miei ricordi in un magazzino che si è allagato. Del resto, ho sempre pensato che la vita vada vissuta senza salvagente. Tutti mi dicono: Stefania, fermati e fai le cose più sicure. Non ci riesco. Il mio gol è vivere, conoscere persone interessanti, attraversare la bellezza, comunicare con la gente.
Mai avuta una strategia. Mi sono divertita».
Con Anthony Minghella nel 1999 girò «Il talento di Mr. Ripley».
«Quando ci siamo incontrati stavo recitando Giovanna D'Arco con Walter Le Moli. Per me il teatro significa Jérôme Savary, con cui feci Irma la dolce , Robert Lepage, che mi diresse in Polygraphe , e Le Moli appunto. Savary è l'ironia, il gioco, la fantasia. Lepage l'innovazione. Le Moli l'introspezione e l'eleganza creativa».
Dunque, Minghella?
«Mi presentai a lui con la testa rasata. Ero magra e pallida come uno straccio. Lui cercava una donna del Sud, figurati. Oh caspita, mi disse, ma tu mi sembri più tedesca che italiana. Gli feci cambiare idea. Rubai un vestito Anni Quaranta alla madre del mio ragazzo di allora, misi lenti a contatto scure e una parrucca nera. Capì che ce la potevo fare. Sul set, a Ischia, Anthony era dolce, poetico, molto attento agli attori».
silvia rocca e la sorella stefania
Tra i suoi pigmalioni c'è Kenneth Branagh.
«Un vulcano di energia. Andai a Londra, mi fece cantare e ballare il tip tap. Pene d'amor perdute è un musical in inglese antico. Non facile. Mi misero vicino un insegnante, Timothy Spall mi metteva soggezione. Branagh s' accorse del mio disagio: cosa c'è, Stefania? Risposi: non so, Ken, forse non sono all'altezza. Lui mi dette una lezione che non ho mai dimenticato: se senti di avere dei limiti, usali. Nel film interpretavo un'analfabeta. Mi s' è accesa una lampadina».
Con Mike Figgis ha girato «Hotel» nel 2001.
«Un eccezionale sperimentatore. Per lui vale il timing . Tutto viene calcolato e cronometrato. La matematica incontra l'arte astratta. Imprevedibile, moderno, molto british».
L'opposto di Abel Ferrara che la diresse in «Mary» (2005) e «Go Go Tales» (2007).
«Abel è più "italiano": si esprime anche con i gesti del corpo. Per lui non valgono regole e schemi precostituiti. Cambia, rivoluziona, stravolge. Odia riprodurre la realtà. Chiede immediatezza e naturalezza. Nel cast dei due film c'erano Forest Whitaker, Juliette Binoche, Matthew Modine, Willem Dafoe. Esperienza unica».
Lei è amica di Cate Blanchett.
«L'ho conosciuta sul set di Minghella, anche se avevamo scene diverse. Abbiamo legato subito. Siamo schiette, non temiamo di dire quel che pensiamo. Anthony si era accorto e ci volle come sorelle in Heaven di Tom Tykwer, che lui produceva. E lì sono volati gli schiaffi... In un momento drammatico, Cate ha intuito che stavo per darle una sberla e mi ha detto: coraggio, picchiami. L'ho rivista a una sfilata di Giorgio Armani qualche anno dopo. Mi ha abbracciato: "Stefania, ti ricordi?". Siamo ancora in contatto».
Poi ci sono i fratelli Taviani.
«Con loro girai una miniserie per la tv, Resurrezione . Dovevo ancora finire il film con Cate Blanchett, mi precipitai in Siberia. Per non perdere tempo, mi diedero un aereo privato. Wow! Mi sentivo una regina su Marte. Durante quel viaggio scoprii di amare profondamente la terra. Non vedevo l'ora di rimetterci i piedi».
Con Dario Argento ha girato «Il cartaio».
«Il suo è un mondo davvero speciale. È un padre/maestro. Pieno di contraddizioni. Sensibile e forte. Vittima e carnefice. Serio e divertente. Una volta gli feci uno scherzo. Misi del cotone in bocca e simulai un'allergia. Andò personalmente in farmacia a comprarmi le medicine».
Cristina Comencini?
«Quando mi chiamò per La bestia nel cuore vivevo a Parigi. Dovevo interpretare una cieca. Per prepararmi, andai in un istituto come volontaria. Accompagnavo i non vedenti, mangiavo con loro. La scintilla però non scattava. Mi accorsi che c'era una differenza tra chi è cieco dalla nascita e chi lo diventa. Andai dalla direttrice. Mi raccontò: io non vedo da quando avevo 16 anni. Sono diventata la sua assistente. Mi spiegava: senti il rumore delle suole? Da quello puoi capire che scarpe porta chi ti sta vicino, se è uomo o donna, pesante o leggero, aggressivo o no».
Qual è l'insegnamento principale che dà ai suoi figli?
«Scoprite le vostre passioni e coltivatele usando metodo. Si sceglie con l'istinto, si costruisce con la forza di volontà. Quella è la vera libertà. Ma per arrivarci devi conoscere e rispettare te stesso e ciò che ti sta intorno».
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