Maurizio Ferraris per “La Stampa”
Non essendo mai stato su un social, ho qualche difficoltà a capire l'invettiva di Paolo Crepet contro i social, che a me non hanno mai dato alcun fastidio. Non possedendo, purtroppo, un social, non dispongo degli strumenti atti a valutare l'attendibilità della profezia di Crepet intorno alla loro prossima scomparsa.
Quello che apprendo da strumenti molto tradizionali come i giornali è che ogni generazione ha i suoi social, e scrivendo "ogni generazione" non mi riferisco all'avvicendarsi dei boomer, dei millenial, della generazione Z e così via, ma al genere umano dalle sue origini. Una delle caratteristiche dell'umano è di essere un animale sociale, dotato di tecnica, compresa quella forma di tecnica che è il linguaggio e, più avanti, quell'altra tecnica che è la scrittura.
Non ho alcuna difficoltà a immaginare che quando la scrittura è diventata di uso corrente, per esempio in Grecia, ci sarà stata qualche invettiva contro la scrittura.
Anzi, non devo nemmeno immaginarlo, perché c'è stata davvero: Platone, nel Fedro, ha scritto che la scrittura conferisce un falso sapere, e fa circolare le idee fra persone che non sono preparate a capirle. Mi sembra di ritrovare in Crepet qualcosa di questa condanna, anche se è più coerente di Platone, perché se quest' ultimo deplora per iscritto la scrittura immagino che Crepet non abbia postato sui suoi social, posto che ne abbia, la sua requisitoria.
Così, non dobbiamo pensare che la tecnica sia solo moderna, c'è dall'origine dell'umanità, e, ben lungi dal disumanizzarla, la umanizza, perché senza di essa saremmo solo degli animali particolarmente deboli e disadattati. Che oggi la tecnica, invece che a scavare buche o avvitare bulloni, ci aiuti a esprimere i nostri sentimenti e le nostre idee, mi sembra un indiscutibile progresso. Che quei sentimenti e quelle idee possano essere spregevoli, aberranti, idioti o anche solo stereotipati, dipende da chi li esprime, non dallo strumento.
Di qui due effetti prospettici su cui vale la pena di riflettere. Ci saranno stati sicuramente degli imbecilli nelle caverne, solo non hanno lasciato traccia, ed è su questa circostanza che si è fondato il mito del buon selvaggio; che oggi l'imbecillità sia più documentata, grazie ai social, è un male o un bene? Secondo me è un bene, non solo perché è più documentata anche l'intelligenza, ma anche perché, comunque la si metta, l'ignoranza è un male. Più interessante ancora però è un altro fenomeno: ogni tecnologia naturalizza quella precedente.
Oggi Crepet e altri biasimano i social e le notorietà immeritate che producono, ma trent' anni fa Popper trovava gli stessi difetti nella televisione, settant' anni fa Heidegger se la prendeva con le macchine per scrivere, trovando, chissà perché, più "naturale" la scrittura a mano (un'altra mediazione tecnica del pensiero, proprio come lo è il linguaggio, tanto è vero che sono cose che si imparano esattamente come andare in bicicletta), Nietzsche biasimava i giornali e la tendenza a diffondere e abbassare la cultura.
Sono sicuro che i social avranno degli eredi, ma sono altrettanto certo che un Crepet dell'avvenire li criticherà rimpiangendo i bei social di una volta.
Vorrei finire con due aneddoti. Il primo riguarda Goethe, cui molti rimproveravano i suicidi provocati dal Werther, che (non dimentichiamolo) è un romanzo basato sul social dell'epoca, la corrispondenza epistolare. Rispose: e quelli che muoiono nelle miniere inglesi? In effetti, quei minatori avevano una vita durissima che era risparmiata ai lettori del Werther; e chiunque abbia a cuore l'umanità non può non rallegrarsi del fatto che oggi così tanti possano stare sui social invece che in miniera.
MAURIZIO FERRARIS - L IMBECILLITA E UNA COSA SERIA
Il secondo riguarda Kant, che nel 1771 recensì un libro in cui il medico pavese Pietro Moscati dimostrava, prove scientifiche alla mano, quali e quanti danni fossero venuti agli umani dall'adozione della stazione eretta. Dopo aver esaminato con partecipazione la lista delle disgrazie della civiltà, Kant non la contestava, ma concludeva che l'umano, invece che tornare a quattro zampe, deve «adattarsi agli incomodi che gli vengono dall'aver sollevato il suo capo così orgogliosamente sopra i suoi vecchi camerati».
De te fabula narratur: ci sono degli incomodi nei social (evitabilissimi, basta non leggerli) ma costituiscono un passo in avanti nel cammino, purtroppo infinito, che si chiama "umanità".
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