Paolo Guzzanti per “il Giornale”
Era un leone, dietro quell'arietta mite e quel modo di parlare garbato e lievemente nasale per cui lo chiamavamo giocosamente Topo Gigio, mentre era stato uno degli eroi della prima guerra d'indipendenza dello Stato di Israele che aveva combattuto con il fucile e la macchina da scrivere.
Era un uomo di stirpe. Certamente ebraica, ma più che altro piemontese, torinese per la precisione malgrado le origini emiliane e le peregrinazioni.
Quella di una borghesia gentile, decisa, che ha dato tanto al giornalismo e alla letteratura, da Primo Levi e Carlo Casalegno, per dire i primi che vengono in mente. Era spiritoso, aveva un senso dell'umorismo sottocutaneo come quello di Woody Allen (vaghissima somiglianza anche gestuale) ed era sempre serio quando sorrideva senza contentarsi mai dell'aspetto superficiale di fatti e notizie.
Come i migliori italiani ebrei del Piemonte (malgrado la lunga interruzione in Argentina per difendersi dalle persecuzioni) si può solo ricordare, per ceppo, il Primo Levi scrittore della Chiave a stella (prima di Se questo è un uomo) e Natalia Ginzburg (il cui padre in Lessico familiare definiva «negritudine» qualsiasi cosa incivile, parola che oggi non sarebbe permessa) anche Arrigo era due volte patriota: come italiano e come ebreo israeliano.
Le note di agenzia riferiscono che in ospedale sentendosi alla fine ha fischiettato le note dell'inno di Israele. Non si tratta di una persona di genere frequente. E meno che mai con un atteggiamento che senza essere mite era rassicurante, liberale, tollerante, ma non per questo accomodante. Anzi, era elasticamente intransigente.
Famoso e glorioso il suo conflitto negli anni '70 con Gheddafi, quando la Libia acquistò provocando in Italia e in Europa molta preoccupazione e anzi scandalo una quota della Fiat. Il dittatore libico, benché fortemente sostenuto dall'Italia con cui ebbe sempre un rapporto sia privilegiato che conflittuale, cercò di ottenere il licenziamento di Arrigo Levi dalla direzione della Stampa per aver pubblicato nelle pagine di Cultura una presa in giro dello stesso Gheddafi firmata dalle due star dell'umorismo Fruttero e Lucentini.
Il dittatore infuriato minacciò Gianni Agnelli di boicottare e far boicottare tutti i prodotti Fiat in Libia, provocando un danno aziendale di almeno venti miliardi di lire. Levi per non mettere in imbarazzo Agnelli gli offrì le sue dimissioni cui l'Avvocato rispose con una delle sue battute più folgoranti: «Complimenti, caro Levi: da oggi è il giornalista più costoso del mondo».
Gheddafi abbassò le penne e dopo non molto il suo capitale uscì dalla Fiat che tirò un sospiro di sollievo. Il Comitato dei Paesi Arabi convocato da Gheddafi disse di no al boicottaggio. Fruttero&Lucentini si divertirono moltissimo e seguitarono nei loro scritti a punzecchiare il dittatore libico senza mai passare il segno della loro micidiale buona educazione.
È morto a 94 anni, con tutti gli onori del rango e i riconoscimenti che ha incassato: fra gli ultimi, quelli dei presidenti Ciampi e Napolitano che lo hanno voluto nella loro cerchia di persone con le quali è istruttivo parlare.
La televisione che lui faceva, specialmente all'inizio, era molto in bianco e nero, non solo perché ancora non c'era il colore, ma perché Arrigo non aveva mai paura del grigio, del campo in cui è la parola che prevale sul gesto, persino sul fotogramma o il fermo immagine.
Finché non arrivò lui al Telegiornale, i notiziari erano stati letti da speaker professionisti impeccabili dalla voce calda e senza la minima inflessione nella Rai in cui non si tolleravano parolacce né accenti da suburra. La lingua della Rai equivaleva all'inglese della Bbc (presso la quale Arrigo lavorò per un lungo periodo) che è una delle forme della lingua ufficiale. Arrigo volle il microfono per parlare direttamente agli spettatori che si trovarono di fronte, nel piccolo schermo, un omino curioso, vivo, brillante, capace di concedersi pause, sorrisi, espressioni elaborate ed altre fulminanti.
Aveva vissuto a Mosca come corrispondente per molti anni e conosceva molto bene quel mondo che sapeva narrare oltre che con la solita ironia, anche con una competenza impeccabile, aggiornata sui retroscena.
Aveva la passione per gli «speciali» televisivi un genere oggi pressoché estinto nella rissa continua nei talk show durante i quali si riusciva a vedere, capire, ascoltare opinioni fra loro diverse e contrastanti, esposte da persone decise ma che sapevano rispettarsi e che comunque per la presenza di Levi sapevano bene quali fossero i limiti non tanto della disciplina, quanto dell'eleganza.
Era davvero un liberale, parola oggi inquinata dai tentativo di imitazione senza senso. Il suo essere liberale era l'opposto dell'equidistanza: era ben schierato, dichiarava le carte che aveva in mano, consentiva a tutti di giocare le proprie e imponeva il rispetto, adottandolo lui per primo.
Oggi i television maker dovrebbero pensare ad avere il coraggio di fare in tv cose del genere di quelle che faceva Arrigo Levi, anziché farsela sotto ogni minuto con gli ascolti drogati e scioccati dalla brutalità quando non dalla violenza.
Sto cercando qualche difettaccio di Arrigo, giusto per non riempire la solita lapide di encomi, sempre dovuti al morto che se ne va. L'unica cosa che non aveva era la temerarietà: la sfrontatezza da faccia a faccia. Ma non era un difetto.
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Quando mise le sue dimissioni a disposizione di Agnelli, che le respinse dichiarandolo il giornalista più costoso d'Italia, agiva per coraggio e con coraggio. E ricordo bene nelle piccole chiacchierate dietro le quinte, quando mi invitava a qualche dibattito, il suo sarcasmo, la sua voce tagliente, la scaltrezza, il desiderio di essere ben accetto e ben capito, ma mai accomodante.
gheddafi Gianni Agnelli FRUTTERO E LUCENTINI LA PREVALENZA DEL CRETINO