Elvira Serra per www.corriere.it
elisabetta villaggio fantozzi dietro le quinte
Il primo ricordo di suo padre?
«Io e mio fratello eravamo piccolini e dovevamo aspettarlo fuori dai locali mentre faceva cabaret. Ricordo queste lunghe attese che non sopportavo.
Di giorno faceva l’impiegato, un lavoro che gli aveva trovato il nonno quando mia madre era rimasta incinta di me. Però era un assenteista, la sera tirava tardi, gli piaceva stare in compagnia. Una volta avevo avuto la febbre e non ero andata a scuola e mi aveva colpito che anche lui fosse a casa e che dormisse fino a tardi».
L’ultimo ricordo?
«Stava già male, era ricoverato e cercavo di trascorrere più tempo possibile con lui. A un certo punto mi disse: “Sai che ho sempre pensato di essere matto? Da quando sono nato”. Era davvero preoccupato e questa cosa mi colpì perché con la sua follia, invece, era riuscito a tirar fuori personaggi che hanno fatto ridere tutti».
Elisabetta Villaggio, regista e scrittrice, non ha mai amato essere considerata «la figlia di» (Paolo, Fantozzi, Fracchia, Professor Kranz). Quando da piccola glielo chiedevano, lei ribatteva che il suo papà era un omonimo.
E se proprio l’interlocutore non mollava la presa, lei contrattaccava: e a te che effetto fa essere figlio di tuo padre? Oggi non è più così. E lo dimostra con Fantozzi dietro le quinte. Oltre la maschera. La vita (vera) di Paolo Villaggio (Baldini+Castoldi, 164 pp., 16 euro), un libro affettuoso in cui racconta lavoro, amici, passioni e curiosità di quel padre fuori dagli schemi scomparso il 3 luglio del 2017 eppure così vivo nell’immaginario di tutti.
Che padre è stato?
«Sui generis, molto speciale. Sono fiera di essere sua figlia. Non è mai stato banale».
Litigavate?
«Ci siamo sempre scontrati! Su certe cose abbiamo un carattere molto simile. Lui era un grande organizzatore, e io pure, ma non volevo farmi dire da nessuno cosa fare in una giornata e men che meno nella vita.
Era molto pretenzioso: per lui essere felici significava sposare il presidente degli Stati Uniti, essere bella come Cindy Crawford, essere ricchi come uno sceicco. Aveva aspettative troppo alte! Alla fine ho capito che questi erano modi per spronarmi a ottenere di più e a migliorare».
paolo villaggio sedia a rotelle
Com’è stato dover condividere il suo papà privato?
«Non facile. Lo fermavano di continuo per chiedere autografi, baci, abbracci, e poi spuntava sempre una macchina fotografica. Quando abbiamo lasciato Genova e ci siamo trasferiti a Roma, agli inizi del ‘68, ha avuto questa botta di notorietà. Dopo è diventato normale anche per me, ma per un lungo periodo ho detestato i fotografi che ci invadevano casa, mi dicevamo fai così, mettiti là...».
Le vacanze com’erano?
«Quelle, bellissime. Perché all’estero nessuno lo conosceva e ci lasciavano tranquilli. Siamo stati in tantissimi posti. Una volta a New York andammo a vedere un musical, la protagonista aveva avuto un malore e fu sostituita da Liza Minnelli: papà impazzì.
A Parigi mi portò in un ristorante dove si mangiavano solo formaggi: io, come lui, ne ero ghiottissima; quella notte stetti male per quanti ne avevamo mangiati».
Quando scoprì il diabete non fece nulla per curarlo. Fino a ritrovarsi in sedia a rotelle. Non le faceva rabbia?
«Certo! Ma con il cibo era incontrollabile e poi non dava retta a nessuno. Quando fu costretto a muoversi in sedia a rotelle si prese un autista: andava in giro con lui, fin dal mattino, per il primo cappuccino con i cornetti...».
Nel libro scrive che suo padre era un cialtrone.
«Lo definivano così gli amici, affettuosamente. Paolo Fresco, con cui aveva fatto il liceo, mi raccontò di quando gli diede appuntamento a Cortina senza farsi trovare».
Fabrizio De Andrè?
«Era uno di famiglia. I genitori di De Andrè e i miei nonni erano amici: papà e Fabrizio si conoscevano da sempre. Quando veniva a Roma stava a casa nostra. Ricordo le sere a cantare Carlo Martello e La canzone di Marinella».
Cos’aveva in comune con Ugo Fantozzi?
«Beh, mio padre era un uomo coltissimo. Mi fece leggere Marcuse quando ero adolescente, e non capii nulla. Anche mio figlio Andreas, che adorava, lo ha sempre trattato da adulto: a lui faceva leggere Kafka.
paolo villaggio anna maria rizzoli dove vai in vacanza?
Detto questo, non aveva alcuna manualità, non ha mai cambiato una ruota, non sapeva usare il computer, men che meno gli smartphone. Ogni tanto era un po’ impacciato, tant’è che in privato gli dicevamo: guarda papà che così sembri Fantozzi. Però con il suo personaggio più amato penso che avesse in comune soprattutto la tenacia».
Vi siete mai detti ti voglio bene?
«Eh, su queste cose prevaleva il pudore... Però, forse, nell’ultimissimo periodo ce lo siamo detti».
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