Paolo Giordano per Il Giornale
In fondo è rimasto uno degli ultimi a resistere. Quando parla, Little Steven è rock, con quella pronuncia muscolosa e stentorea. Quando suona, è rhythm' n'blues, perché da lì arriva. E quando pensa, è soul, pieno di morbidezze e persino di illusioni nonostante sia alla vigilia dei 67 anni.
Li compirà poco prima di ritornare in Italia con i suoi Disciples of Soul (5 dicembre all' Alcatraz di Milano, l' 11 al Gran Teatro Geox di Padova e il 13 all' Atlantico di Roma, organizzazione Barley Arts) a bordo di quello che Rolling Stone ha definito uno dei migliori dischi del 2017.
«In Soulfire il protagonista sono io come compositore, cantante e chitarrista: ci sono un paio di cover (una favolosa Blues is my business di Etta James - ndr) e alcuni pezzi che credo tra i migliori che ho scritto, oppure contribuito a scrivere, nella mia carriera».
Dopotutto Little Steven è riconosciuto dai più come il chitarrista ritmico che tiene per mano Bruce Springsteen durante i suoi show torrenziali, quello con la bandana in testa e il volto di fianco al Boss davanti a un microfono. In realtà è essenzialmente un self made man del Massachusetts con origini napoletane e calabresi (il nonno era di Lamezia Terme) che, dopo aver cambiato il suo cognome originario (Lento) con quello del secondo marito della mamma (Van Zandt), ha aiutato a cambiare il rock americano: «Alla fine degli anni Sessanta cambiavamo band ogni due settimane e spesso Springsteen era nella mia o io nella sua finché nel 1975 ci siamo ritrovati nella E Street Band».
Da allora si sono separati poche volte perché, come ha spiegato, «io sono l' unico che con lui non abbia mai voluto essere il capo». In sostanza, parola di Little Steven, «con lui ho semplicemente vinto un posto in prima fila nel più grande show della Terra». Quando si è preso una pausa dallo spettacolo, si è trovato qualche hobby. Ad esempio I Soprano, la serie sulla mafia del New Jersey diventata un «cult» nella quale lui era Silvio Dante. Poi, su Netflix è stato Frank Tagliano in Lilyhammer, sempre mafioso e sempre capellone. Infine adesso si dedica al suo «hobby più costoso: fare dischi e suonarli in giro per il mondo»
D' altro canto ha una superband come ormai se ne vedono poche, con una sezione fiati di cinque elementi e tre coriste, oltre a basso, batteria eccetera. «Sono i migliori musicisti di New York», spiega parlando, appunto, da New York: «E in tutto lo spettacolo cambiamo genere musicale dieci o undici volte perché passiamo da Walking by myself di Jimmy Rogers a Down and out in New York City di James Brown fino a Ennio Morricone. A proposito, lo conosce? Mi piacerebbe invitarlo a Milano o a Roma, lui è decisamente il migliore di tutti».
Sul palco Little Steven è stile vecchia guardia: pochi fronzoli, molta sostanza. Con Springsteen rarissimamente suona la solista. Quando è da solo sul palco, si concede qualche fuga nel virtuosismo più blues, cioè lento come il suo vero cognome e caldo come la sua musica preferita: «Ma non voglio certo dimostrare di essere il migliore di tutti, non lo sono e non mi interessa esserlo».
In poche parole, è una «working class celebrity», una rockstar che lavora e che vuole che «la gente si diverta e si fidi di me». È la missione di chi è partito dal nulla, ora è famoso e milionario ma si arrabbia se la gente non trova più la buona musica in radio: «Difatti me ne sono fatta una io e per due ore al giorno trasmetto la musica che voglio».
Per capirci, da Bo Diddley ai Rolling Stones. La potete ascoltare su www.undergroundgarage.com ed è uno dei tanti rivoli della sua passione. Gli altri sono la tv («Ho tante proposte, deciderò nel corso dell' inverno») e il cinema: «Si parla di un film tratto dalla serie Soprano, ma non c' è ancora nulla di certo».
Di sicuro, c' è che tornerà negli stadi con Bruce Springsteen a partire dalla prossima estate e nel frattempo si gode il proprio «hobby più costoso»: «Quando ero ragazzo, nessuno mi ha rinfacciato le mie origini italiane, come ad esempio a Steven Tyler degli Aerosmith, ma ho capito di aver la testa dura come i calabresi e di aver voglia di fare tante cose diverse come i napoletani.
Perciò lavoro ogni giorno ma faccio fatica a chiamarlo lavoro perché è semplicemente una parte di me». Detto da Steven Lento poi diventato Van Zandt, un signore con la chitarra a tracolla cui piace farsi chiamare Little, piccolo, forse per bilanciare una passione big come quella di chi non riesce a farne a meno neanche dopo mezzo secolo.
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