Paolo Bianchi per “Libero Quotidiano”
Adesso che se n' è andato, di Andrea G. Pinketts resteranno milioni di storie, quelle che ha raccontato e quelle che si diranno su di lui. Pochi scrittori contemporanei riempiono in vita tanto spazio. Lui era voluminoso in tutto, a partire dal registro vocale. Se entrava in una stanza mediamente affollata, schiacciava tutti contro la parete. Trattasi di una metafora, perché lui, di suo, non avrebbe torto una zampa a una libellula.
La retorica gli ripugnava, perciò non gliene va riservata alcuna. In compenso, adorava che si parlasse di lui. Andrea aveva un ego enorme, pari al suo talento. Ci vorranno molte vite altrui per ricostruire la sua, soprattutto quella notturna, dato che era lui il primo a muoversi su una linea d' ombra fra la realtà grigia e quotidiana (del mondo in generale) e le costruzioni fantastiche che ogni giorno riversava sulla pagina, tradotte in romanzo.
La vita del fenomeno Pinketts, negli ultimi 10-15 anni, si svolgeva su un binario che visto da di fuori poteva sembrare addirittura burocratico. Sveglia tardi, ma non tardissimo, nel monolocale di via Washington da lui stesso denominato Il Bunker, una nicchia di protezione nei confronti dell' universo esterno. Un microcosmo pieno di cimeli da cui si staccava solo per andare a pranzo dalla madre, che lo adorava e con cui litigava quasi ogni giorno, amandola perdutamente. Pomeriggio in un bar vicino (per molti anni in piazza Wagner).
Lettura continuata di quotidiani (fra cui Libero) e libri di ogni genere e classe, di alta e bassa letteratura. Per quanto sembrasse assorbito nel suo mondo, Andrea non era mai infastidito dal prossimo. Anzi. Interrompeva qualunque pagina a metà, o telefonata in corso per chiacchierare con chiunque. Se poi gli si chiedeva di parlare di sé, o dei suoi libri, o delle sue apparizioni televisive, lo si faceva felice.
Nel tardo pomeriggio andava al Trottoir, locale storico della vita notturna milanese, prima a Brera e più di recente alla Darsena.
Quello era il suo mondo. In un' apposita "Sala Pinketts" si sedeva e scriveva a mano pagine su pagine, libri e articoli, ininterrottamente, nullum die sine linea.
IL SUO SISTEMA SOLARE Dopo l' ora di cena e fino all' alba si installava in qualche tavolino e diventava il centro dell' interesse generale. Intorno a lui gravitava un piccolo sistema solare di adepti, ammiratori, curiosi. Gente sbandata che aveva pasticciato con la vita, nottambuli e insonni, artisti più o meno falliti, cercatori di anime gemelle a buon mercato, sognatori e poeti, donne innamorate di lui.
Il Trottoir con Pinketts incluso era un' attrazione milanese non inferiore a Brera o al Poldi Pezzoli.
Chiunque superasse lo sbalordimento d' incontrare un personaggio così eccentrico, cadeva nell' incantesimo. Impossibile non divertirsi con lui, dal momento che sapeva tutto e parlava di tutto: donne, libri, film, fumetti, cultura pop e grandi classici. La sua memoria eidetica tratteneva informazioni ricavate da qualunque fonte, e le metteva in relazione fra loro con risultati sempre originali. Gli parlavi di Tolstoj e lui arrivava a Ellroy. Confezionava giochi di parole e calembour a ritmo incessante. Solo a ore antelucane la sua lucidità si offuscava, per via dell' alcol. Ma negli ultimi anni beveva solo birra e aveva una ragazza meravigliosa, Alexia, che gli ha regalato tanta vita.
IN OSPEDALE Adesso tutti diranno di averlo conosciuto e racconteranno di lui chissà cosa. Lui ne sarebbe orgoglioso. Io l' ho visto l' ultima volta in ospedale, poche settimane prima della fine. Abbiamo parlato di tutto tranne che della morte. Pubblicamente, non la contemplava.
Si rivolgeva alle infermiere con frasi come «Se più tardi passasse con un po' di morfina, mi troverebbe favorevole». Per scherzare gli ho detto che ci sarebbe voluto un po' prima che gli permettessero di nuovo di bere. «Va bene così», mi ha risposto. «Rinuncio ai superalcolici. Di rum, mi basta la memoria di tutto quello che ho bevuto».
Non ha mai rinunciato a quello che chiamava Il senso della frase titolo di uno dei suoi libri più belli.
Si definiva un duro, e in molti pensavano che scherzasse. Posso testimoniare che coraggioso lo era e lo è stato fino all' ultimo. È stato coraggioso nella parola, e lo è stato di fronte all' eternità. È un privilegio averlo conosciuto.
2. A STARE CON LUI TI VENIVA DA PINKETTIZZARTI
Massimiliano Parente per il Giornale
Sono rimasto allibito alla notizia della morte di Andrea, non sapevo stesse male, anche perché non ci sentivamo da qualche mese. Di solito mi lasciava messaggi in segreteria dove mi chiamava Max, con quella sua voce profonda, e sempre alla vigilia di un suo libro. Era l' unico a cui non riuscivo a dire no quando mi chiedeva una recensione, e aveva la sfacciataggine di chiedertela senza troppi preamboli.
Mi piaceva perché non era un do ut des, non è che poi lui avrebbe recensito me, semplicemente se eri amico suo eri un suo personaggio. Quando stavi con lui ti sembrava di essere in un film, o in uno dei suoi romanzi mezzi noir mezzi folli. L' ultima volta abbiamo parlato proprio di salute, perché io avevo smesso completamente di bere, e Andrea diceva che non si poteva fare a meno completamente di bere, che la vita senza alcol non aveva senso, e anche senza fumo.
Mi offriva i suoi toscani, che fumava lunghi, senza spezzarli, e anche io mi misi a fumarli lunghi, perché Andrea era contagioso, a stare con lui ti veniva da pinkettizzarti. Un giorno mi fece promettere che se fosse morto prima lui di me avrei scritto qualcosa io, perché «tu non sei mai banale». Anche lì gli dissi sì, pensando che tanto sarei morto prima io, perché chi lo ammazzava, Pinketts. E d' altra parte la frase migliore l' ha detta Andrea, alla Pinketts fino alla fine: «Ho il cancro, perché ho fumato troppo, ma è colpa mia, il sigaro lo perdono».
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