“STO PERDENDO LA VISTA PER UN GLAUCOMA” – MASSIMO FINI RACCONTA IN UN MEMOIR LA MALATTIA CHE LO STA RENDENDO CIECO – LA PERDITA DEI RIFERIMENTI (“ALLA FINE SI VEDONO SOLO MACCHIE DI COLORE, A VOLTE NEPPURE QUELLE. SI PUÒ RALLENTARNE L’AVANZATA, CON COLLIRI, LASER E OPERAZIONI CHIRURGICHE, MA NON SI PUÒ VINCERE”), LA SOLITUDINE E IL RISCHIO DI PERDERSI A 50 METRI DA CASA...

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Alessandro Gnocchi per “il Giornale”

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Questa è la storia di un uomo che perde lentamente, gradualmente, inesorabilmente la vista. Quell’uomo sono io». Con questa «Introduzione brevissima» inizia Cieco (Marsilio, pagg. 84, euro 12) di Massimo Fini. Come viene insegnato a ogni giornalista, la distanza è fondamentale per scrivere un ottimo pezzo.

 

Sappiate, cari lettori, che questa regola non sarà rispettata in questa pagina, e speriamo che il pezzo risulti almeno buono.

 

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Fini invece scherza col fuoco della sua debolezza e della sua crescente solitudine. È un modo di interpretare la vita, un modo antico, che ricorda, più che la letteratura contemporanea, quella latina. Cieco ricorda più Seneca di Alessandro Baricco o Paolo Giordano, meno male.

 

Fini racconta, in modo astutamente leggero, una lotta inutile contro una malattia nota purtroppo a molti: il glaucoma. In parole semplici, a causa di una elevata pressione oculare, il campo visivo si restringe progressivamente. Alla fine si vedono solo macchie di colore, a volte neppure quelle. Si può rallentarne l’avanzata, con colliri, laser e operazioni chirurgiche, ma non si può vincere.

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Fini racconta, dicevamo, e raccontando finisce col toccare una infinità di temi che, a dire il vero, interessano anche chi ha una vista perfetta.

 

Prima di tutto. Siete sicuri di guardare davvero cosa vi sta attorno? Domanda banale ma risposta complessa. È quando si teme di perdere la vista che si inizia a guardare sul serio. Forse è ovvio che sia così. Addirittura scontato. Ma se crediamo di sapere che le cose stanno in questo modo, perché continuiamo a osservare male quando siamo sani? E qui la risposta, che forse sarà diversa per ciascuno di noi, non è affatto ovvia e scontata.

 

 

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Un altro tema, e problema, è la solitudine. Mano a mano che il mondo scompare, ci si trova imprigionati dentro se stessi. Certo, con un po’ di fortuna e di impegno, avremo accanto le persone, poche o tante, che ci vogliono bene. Ma la solitudine resta: non si può prendere l’automobile e andare a trovare un amico lontano. Dipendere da qualcuno è due volte pesante, a volte pericoloso perché c’è sempre il rischio di trascinare nel gorgo della depressione (e del risentimento e del deperimento fisico) anche chi ci sta accanto. Ma non solo. Dice la ex moglie a Fini: «Massimo, io potrei accompagnarti in giro e dirti ciò che vedo e tu magari scriverne. Ma quello che vedo io non è quello che vedresti tu». L’esperienza del mondo è un fatto personale, sempre difficile da comunicare, a volte impossibile.

 

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Di fronte alle tenebre, il pensiero, inevitabilmente, corre alla morte. Ma prima della morte c’è il perdersi a cinquanta metri da casa o sulla spiaggia versiliana, il non riuscire a riconoscere ciò che ci è famigliare, il nuotare al largo e non trovare più la costa. Tutte esperienze raccontate con esemplare ironia da Fini.

 

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