Elvira Serra per il Corriere della Sera - Estratti
Del kibbutz dove è nato, Raz Degan parla subito, mentre condisce l’insalata con un avocado. «Quando ero bambino mi mandavano a raccoglierli a gennaio e ogni volta rischiavo di rompermi il collo sulla gru». Continua intorno alla tavola imbandita con i prodotti del suo orto. «Vivevamo scalzi, tutte le case erano aperte, c’era un senso di libertà incredibile. Sono cresciuto dove nasce il fiume Giordano, mi sentivo come Tom Sawyer e Huckleberry Finn».
Il kibbutz ritorna mentre spiega perché ha acquistato questo bel trullo quando era solo un rudere in mezzo al nulla, nella Valle d’Itria, estate 2001. «In quel periodo ero affascinato dallo yoga e qui c’era un ashram dove potevo praticare. Il trullo lo trovai dopo tre settimane, alla fine di una strada, i muri crollati. C’era un gelso, come quello dietro la casa di mio padre: lo guardavo da sopra una panchina e sognavo di conquistare il mondo, visitare terre sconosciute, recitare; i miei eroi erano Marco Polo, Jacques Cousteau, De Niro e Jimmy Dean. Appena vidi il gelso, mi sentii a casa».
Dov’era il 7 ottobre, il giorno della strage di Hamas?
«Ero qui, aspettavo mia sorella Solana dal Messico. Sono state settimane terribili: a quel rave sono stati violentati e bruciati vivi amici e anche la cognata di mio fratello e suo marito. Il mio kibbutz è stato evacuato, ma mio padre si è rifiutato di lasciare la casa. Penso sempre a lui».
È riuscito a fare qualcosa per loro?
«Ho ospitato parenti, donne e bambini scappati, con la preoccupazione che potesse succedergli qualcosa: viviamo all’aperto, sento crescere l’antisemitismo, la tensione. Nessuno voleva ciò che è successo: le immagini sono strazianti, da una parte e dall’altra, in mezzo c’è il terrorismo».
Nel kibbutz il rito di passaggio fu il militare.
«Come per tutti. Ma io non volevo la divisa, volevo andare per il mondo. A 16 anni una mia foto arrivò nelle mani di un noto fotografo di moda: feci una campagna, e da un giorno all’altro il mio viso fu tappezzato in tutto il Paese. Il kibbutz mi prese l’assegno: era un gesto che rifletteva l’ideologia di condivisione, dove ogni guadagno personale era per il bene comune».
In Puglia è arrivato da una vita mondana.
«Moda, cinema, Concorde, festival. Questa terra è stata il mio primo acquisto, ma ancora non sapevo che ci avrei vissuto. Era luglio. Poi ci fu l’11 settembre e dal mio loft a Tribeca filmai le Torri che crollavano. Decisi di tornare in Italia: presi casa in piazza Navona, a Roma, ma mi sentivo in gabbia».
La fermavano ancora per strada?
«Non potevo uscire di casa! Per fortuna non esistevano i selfie».
Lo spot dell’amaro Jägermeister.
«Girammo lo spot a febbraio del 1994, poi me ne andai a New York. Quando a novembre 1995 tornai in Italia per il Maurizio Costanzo Show, una folla assurda fuori dal Parioli mi accolse: “Ehi, Jägermeister!”. Oppure: “Razz!!, con due zeta, che in ebraico vuol dire correre, ma “Raz” (con la esse dolce, ndr) significa segreto».
Follie di quegli anni?
«Panico totale. In aereo viaggiavo spesso nella cabina di pilotaggio, soprattutto quando c’erano le fan. Spesso la polizia mi tirava fuori dal caos facendomi saltare file e dogana».
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Lo spot le aprì le porte del cinema.
«Ho lavorato con grandi registi, da Robert Altman a Oliver Stone. Ma l’esperienza più significativa fu con Ermanno Olmi per Centochiodi».
La doppiarono. Le dispiacque?
«Sì, anche perché lo scoprii solo quando il regista mi invitò a vedere il film a Milano. Avevo lavorato sodo. Con Olmi non c’era copione, ti dava le battute la sera prima e dovevi impararle a memoria di notte. Andai a casa sua per protestare e mi spiegò che aveva dovuto pensare al bene del film. Comunque resta la mia esperienza cinematografica più autentica, non ho più fatto uno scavo così profondo».
Il suo sguardo è rimasto profondo da regista. Penso a The Last Shaman, prodotto anche da Leonardo DiCaprio.
«Con Leo ci eravamo conosciuti negli anni ‘90 alle sfilate, mentre io vivevo il mio Titanic, Jägermeister. È simpatico, un ambientalista sensibile, ecco perché ha supportato il documentario. Per realizzarlo ho impiegato 5 anni, uno dei quali in Perù per seguire il percorso di James, il protagonista, con gli sciamani e con l’ayahuasca, la “liana degli spiriti”, che in Italia è illegale».
Ora a cosa sta lavorando?
«Ho appena cominciato il montaggio di Searching for Nirvana. Mostro il viaggio di un hippy italiano che parte per l’India dove diventa un monaco Hindu, e poi torna indietro a fare i conti con il suo karma. Sono riuscito a raccogliere il suo ultimo respiro, a casa sua in Veneto: lo avevo conosciuto nell’ashram qui in Puglia».
Nel suo curriculum ci sono anche due reality show: «Ballando con le Stelle» e «L’isola dei famosi», nel 2010 e nel 2017. Li ha fatti per soldi?
«La spinta economica è stata importante. Ma con Ballando non potevo rifiutare. Mancavo dalla tv da un paio d’anni e mi stimolava essere giudicato mostrando il mio lato più debole: non sapevo ballare. Mi sono impegnato al massimo, ma in finale ho dovuto mollare per un’ernia».
E sull’Isola come ci finì?
«La telefonata mi arrivò mentre ero in Messico da mia madre. Non avevo idea di cosa fosse L’isola dei famosi , mi immaginavo un’esperienza tipo Survivor. Avevo sottovalutato l’impatto di una telecamera addosso 24 ore su 24, perfino sott’acqua, e della convivenza con altri con i quali non avevo niente in comune».
Eppure vinse.
«Durante la prima puntata mi nascosi dietro gli alberi del cocco. Non capivo perché, nonostante mi sbattessi tanto per il gruppo, venissi sempre nominato per uscire. Poi ho fatto un clic e sono entrato in una dimensione mistica, godendo del rapporto privilegiato con la natura. E ho cominciato a torturare i miei compagni».
Addirittura?
«Magari pescavo un pesce e sceglievo di condividerlo solo con uno di loro. Recitavo monologhi dai miei film preferiti, come Apocalipse Now, e neanche li riconoscevano. Volevo scardinare la loro idea di branco: non mi sarei mai adeguato».
Nella sua storia personale c’è anche un passaggio da gallerista a Milano.
«Sui Navigli. Il tavolo in tek che vede là fuori era nel mio studio, sopra ci stavano 8 computer. Mi ha sempre interessato l’arte, dai miei viaggi ogni volta riportavo qualcosa. Quell’elefante in palissandro e avorio arriva dal Kashmir: me lo ero fatto spedire a New York, poi a Milano e ora è qui. Nella Galleria, i Rolling Stones vennero dopo un concerto a San Siro e lasciai fuori i paparazzi».
Non li ha mai amati.
«Non ho mai amato l’invasione della privacy. Un conto è se sei al ristorante, nei festival. Ma a casa tua? Qui in Puglia l’invasione è stata totale. Mi sono trovato con le foto del mio trullo su un giornale di gossip il giorno dell’inaugurazione. Qualcuno in paese aveva parlato».
I paparazzi sono stati la causa della fine della sua storia con Paola Barale?
«Non è stato il gossip il punto di rottura: faceva parte del pacchetto. Il nostro amore è durato dal 2002 al 2015».
In un’intervista a «F» Barale ha detto: «Al di là del dolore che quest’uomo mi ha inflitto, rivangare il passato è una cosa che ancora oggi mi fa stare male». Come replica?
«In tutte le cose, filtro sempre il negativo e valorizzo il positivo: perché devo scriverlo nella mia mente come un fallimento? Grazie a quell’esperienza sono chi sono oggi. Su di noi hanno scritto tante stupidaggini, ma anche tante cose belle. Abbiamo vissuto momenti magici e... sono fatti nostri!».
Le è spiaciuto non avere figli?
«C’è Marlon, il figlio di Cindy, la mia compagna. La verità è che sono sposato con il viaggio, non ho mai avuto una dimora fissa. Ed è una responsabilità che non ho mai preso alla leggera».
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