Da “la Verità”
Per gentile concessione di Bompiani, pubblichiamo un capitolo del nuovo libro di Aurelio Picca, Il più grande criminale di Roma è stato amico mio (112 pagine, 15 euro). Il volume è ispirato alle gesta criminali di Laudovino De Sanctis, figura realmente esistita. Nel testo proposto, il protagonista, Alfredo, racconta del primo incontro folgorante con «Lallo», incrociato in anni di amori, morte umana e animale, con una Roma maligna e divina che pulsa in tutte le pagine.
Estratto del libro “Il più grande criminale di Roma è stato amico mio” di Aurelio Picca
Avevo diciassette anni. Lei sedici. Era venuta dalla Costa Azzurra a trovare i parenti del padre italiano. Catherine l'ho conosciuta sulla piazzetta di Nemi. Voleva mangiare le fragoline di bosco in un tardo pomeriggio d'estate. Tirava vento come in autunno e in inverno. Gironzolavo là perché ho sempre amato il lago della dea Diana.
Oggi ci sono tornato. È piccolo. Sfrangiato. Selvaggio. Acqua nera. E il silenzio che è il contrario del mondo. Ho pensato che il silenzio è più grande di ogni altra cosa, dello stesso oceano. E quando non si percepirà più spariremo dalla faccia della terra. Ho pensato proprio a questo: non saranno guerre e carestie, e neppure l'inquinamento a distruggere il pianeta e i suoi abitanti. No, li seppellirà la fine del silenzio.Ho rivisto il paese che è diventato una scatola piena di souvenir.
Ma il lago, dal punto dell'edicola con la Madonna che stringe tra le braccia il Bambino, è lo stesso del 1974. Sulla cresta di Ponente si affacciano le case di Genzano; a sinistra Palazzo Ruspoli. In fondo, dove la cresta del cratere si abbassa, lo sguardo raggiunge la pianura e il mare. Le piagge sono mani che trattengono l'acqua. La luce è di aurora perenne. Sulla linea che dal lago giunge al mare si mischiano alba e tramonto. Verso sera tutt' intorno si va spegnendo, allora una luce argentea si alza dal fondo e illumina le acque. Una toppa di cielo cade nel lago.
Nell'Alfa gt dello zio Francesco, che guidavo senza patente, con Catherine restavamo abbracciati senza parlare. Ci raccontavamo con i corpi e i baci. Pretendevo un amore assoluto e impossibile. Forse pure lei. Catherine Danieli: capelli biondi, occhi con schizzi di verde e gambe lunghissime che spezzavano il respiro. Veniva da un paese vicino Marsiglia. Quei posti, con Nizza in testa, ora sono pieni di orrendi palazzi in cemento.
Prima ci andava poca gente. Chic, ricchi, avventurieri, gangster. Mi viene da associare quel periodo al fatto che noi fossimo molto magri. Ora vogliono esserlo tutti e quindi si fanno diete. Nel 1974, e per tanti altri anni, eravamo proprio magri senza dover fare cure. Non mangiavamo. Oppure, se mangiavamo, nello stomaco c'era una passione che divorava in fretta il cibo; e finito di consumare il pasto, continuava a consumarci.
Laudovino De Sanctis - lallo lo zoppo
Con Catherine dormivo nella casa di legno dietro quella enorme del nonno Leopoldo. A volte, rischiando di beccare carabinieri e polizia, andavo a prenderla a Nettuno dai suoi parenti. Altre mi ci accompagnava Fabietto che già all'epoca pesava oltre cento chili senza superare il metro e sessanta. Di donne ne avevo sentito parlare dai macellai e dagli stallieri.
Le trattavano da puttane. Raccontavano e scimmiottavano di come gli infilavano il cazzo. Che entrava dappertutto meno che nel naso. Gli autisti dei camion che trasportavano i pezzi di carne per i Castelli, alle femmine gli fischiavano dal finestrino. E gli urlavano o sussurravano, a seconda di quanto erano vicini: «Tesoro, ti spaccherei la fregna!».
Pure se vivevo in mezzo a lupi insanguinati, immaginavo l'amore. Fantasticavo sulla dolcezza e la violenza che avrebbe potuto procurarmi. Le mie fantasie erano tragiche. Dentro di me pensavo che se mi fossi innamorato di una ragazza, poi comunque mi avrebbe lasciato e io sarei rimasto solo. Sempre solo. In fondo come sto adesso. Se ci rifletto sapevo e forse speravo di rimanere solo nella vita. Era destino. L'amore che pretendevo, senza dirmelo, era impossibile. Non resiste sbattendo contro la vita. A volte accade. È un miracolo. Di donne e sesso sentivo e vedevo urlare, maledire e leccarsi i baffi, ma non ne sapevo niente.
Laudovino De Sanctis - lallo lo zoppo
Quando Catherine incominciò a dormire con me nel bosco, in quella tarda estate, stavamo da principio con la canottiera io e il reggiseno lei. Infine nudi. Abbracciati ci toccavamo con le ossa del bacino sporgenti per quanto eravamo magri. Passarono diversi mesi di prove e baci. Baci sul seno di lei duro e umettato di sudore. E baci di lei sul mio collo. Poi, senza volerlo, mentre ci stringevamo seduti sulla sedia, le entrai dentro con imprevista facilità. Avvertii una dolcezza che colava da sé senza nessuna costrizione, forza, volontà. Mentre Catherine mi chiamava «Alfredo, Alfredo», con i capezzoli duri come se la parte più spessa della pelle si fosse concentrata lì.
Ormai era fine ottobre. Una sera andammo a cena al ristorante Il Vecchio Fico, a pochi chilometri da Grottaferrata. Faceva freddo. Il gt Alfa Romeo dello zio ormai era mio. Rosso fiammante. Parcheggiai di lato all'antica posta per carrozze e cavalli che Claudio, vecchio cavallaro amico del nonno, che ancora oggi sta là, trasformò in ristorante. Un fico preistorico era nel giardino a reggere una pergola.
Col freddo decidemmo di entrare all'interno dove, dopo il buffet con ogni ben di dio - prosciutto, salami, ricotte - si accedeva alle sale disposte una dentro l'altra, e con il camino acceso. «Ti piace? Ti piace?» continuavo a ripeterle mentre si spostava la frangia dei capelli dagli occhi e si stiracchiava la minigonna. Claudio, con i suoi baffi e il fazzoletto legato al collo, mi disse "Ragazzo!", e disegnò nell'aria il segno di Zorro con in mano il coltello del prosciutto. La luce della prima sala era fucsia, il fuoco nel camino rosso come l'Alfa e nero per alcuni ciocchi che il cameriere vi aveva accatastato.
abbatino maurizio carminati - banda della magliana
Con Catherine ci sedemmo a un metro. Al tavolo di fronte c'era una coppia di signori. Indossavo la camicia sbottonata sul petto, il giubbino di pelle e all'anulare portavo l'anello di zaffiro. Andai al buffet. Presi il piatto con il prosciutto affettato da Claudio e una cucchiaiata di ricotta. Tornai con lo sguardo a Catherine e gettai l'occhio verso le altre sale. Il Vecchio Fico ardeva. Mi sentivo leggero. Avevamo fatto l'amore l'intero pomeriggio. Mentre tornavo al tavolo mi resi conto di aver preparato un solo antipasto. Lo offrii a Catherine. Io mangiavo niente. Pelle e ossa. Mi ero messo in testa di essere una stecca di biliardo. Non so come feci, deviando verso la mia sedia, con il gomito colpii appena il signore che dava le spalle a noi e al fuoco.
L'uomo si voltò. Movimento agile, da peso welter. Aveva un ghigno stampato sulla faccia. Gli occhi azzurri. Folgorato dagli occhi dissi «scusi». Il suo sorriso si fece smorfia. Lanciò un'occhiata alle mie mani. Mi accorsi che notò l'anello. Allora ruotò per intero sulla sedia - nel frattempo avevo riguadagnato il mio posto - e mi mostrò la sua mano destra che pareva quella di una signorina per quanto era liscia e curata.«Vedo che ti piacciono gli anelli». Fu in quel momento che puntai il suo magnifico chevalier dal quale partiva una luce di diamante. Poi disse «Buona cena», smorzando il sorriso beffardo e spostando verso la sua fidanzata, accompagnatrice, quegli occhi azzurri che avevano il fondo immobile e la superficie gelida.
A osservare le facce e i dettagli del corpo ero piuttosto bravo.Credo di averlo imparato nei mattatoi studiando le espressioni degli animali prossimi a morire o già agonizzanti o morti; e quelle dei macellai e degli scannatori. All'uomo risposi «Grazie» e nient' altro. Ero rimasto attratto e poi colpito da questo signore che mangiava in silenzio in compagnia di una donna delicata, corvina, la pelle di marmo, il collo slanciato. Finita la cena, caso volle che ci ritrovassimo all'uscita.
Fu sulla soglia che lo scrutai bene. Non più alto di un metro e settanta, dentro una giacca taglia 48. Busto atletico. Mi sorrideva ancora con quello strano sorriso che era un ghigno. Aspettai che uscisse per primo. Lui e la signora. Stavo zitto. Intrattenuta da Claudio, Catherine fu l'ultima. Nel momento in cui l'uomo con espressione beffarda scese il gradino, vidi che zoppicava appena sulla gamba destra, come quelli che da ragazzini avevano avuto la poliomielite o la tbc ossea. Aveva un neo blu sulla tempia destra. E uno alla De Niro sulla guancia sinistra. I capelli li portava lunghi, non molto. Ben pettinati. In seguito seppi che era riccio e se li stirava.
«Buonasera», salutammo io e Catherine avviandoci verso il gt. Ma appena mi vide accanto al Quadrifoglio disse ad alta voce: «Immagino che sei svelto a guidare!». Me lo aveva detto mentre, dall'altra parte della strada, apriva la portiera di una Daytona Ferrari viola. Da lì, alzando ancora la voce in tono provocatorio, riprese: «Dai, so che sei bravo, vediamo chi arriva per primo all'imbocco di Grottaferrata». Mi stava lanciando una sfida con gli occhi divertiti e gelidi.
Ero talmente eccitato dall'incontro con quel tipo magnetico che con poche parole mi aveva sedotto. Mi disposi subito con l'Alfa sulla corsia destra - neppure mi venne il dubbio che la sfida era impossibile tra le due auto! - pronto a partire. Lui e la donna dentro la Daytona erano nella corsia di sinistra, contromano. Appena li vidi a bordo, senza aspettare segnale o cenno di intesa, partii sgommando.Il gt sculetta. Raggiungo in pochi secondi lo stop; e di traverso, in piena terza punto a sinistra e subito a destra per Grottaferrata. Raggiunsi in un attimo l'imbocco del corso.
Della Ferrari nessuna traccia. Sentii il rombo dei 12 cilindri e l'avvistai quando già avevo aperto la portiera e stavo in piedi sulla strada.L'uomo col bolide mi si accostò, intanto avevo attraversato la via che porta a Squarciarelli. Uscì con la testa dal finestrino e mi disse: «Mi piaci, non mi sono sbagliato. Sei veloce».
Poi smorzò dalla faccia il ghigno e partì. Seppi dopo un po' che l'uomo era Laudovino De Sanctis, nato il 16 novembre 1936 a Collepardo. Aveva trentotto anni. Poteva essere mio padre. Invece era un grande rapinatore di Roma. Sarebbe diventato il bandito e criminale più feroce mai esistito. Quella sera non sapevo nulla di lui. Ma ne rimasi folgorato.
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