MARCO GIUSTI LEGGE IL NUOVO LIBRO DI TARANTINO, "CINEMA SPECULATION" - "NON SONO NÉ DELLE VERE E PROPRIE MEMORIE CINEMATOGRAFICHE, NÉ DELLE VERE SPECULAZIONI SUL CINEMA. CREDO INVECE CHE TARANTINO CI ABBIA INVECE VOLUTO DARE, A MODO SUO, UNA SORTA DI AUTOBIOGRAFIA COMPOSTA DA UN MISCHIONE DI CONSIDERAZIONI SUI FILM DELLA SUA VITA, QUASI TUTTI LEGATI AGLI ANNI ’70” - LA VERA SCOPERTA DEL LIBRO E IL SUO FASCINO STA TUTTO IN QUEST’APERTURA DEL REGISTA SULLA SUA VITA…"

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Marco Giusti per Dagospia

 

Quentin Tarantino Quentin Tarantino

Non sono né delle vere e proprie memorie cinematografiche, né delle vere speculazioni sul cinema, malgrado a questo alluda il titolo del suo libro, “Cinema Speculation”, uscito a Natale per Weidenfeld&Nicolson e ora tradotto anche in italiano, pronto per accompagnare il tour europeo del regista, che inizia domani a Londra al The London Palladium e arriverà a Milano il 7 aprile.

 

QUENTIN TARANTINO CINEMA SPECULATION QUENTIN TARANTINO CINEMA SPECULATION

Credo invece che Quentin Tarantino ci abbia invece voluto dare, a modo suo, come capita invecchiando a tutti i critici e a quelli che Enzo Ungari chiamava “amatori di film”, una sorta di autobiografia composta da un mischione di considerazioni sui film della sua vita (la dico in modo banale alla Monda), quasi tutti legati agli anni ’70, da “Bullit” a “Getaway”, da “Joe” a “Taxi Driver”, anzi considerazioni e riletture tardive, e di piccola, ma fondamentale cronaca di come ha visto non tanto questi film più importanti, dei quali discute animatamente cercando continuamente nuove angolazioni, quanto dei piccoli film di genere che vedeva da ragazzino, tra i sette e i quattordici anni, accompagnato dalla madre, dai fidanzati neri della madre, dalle amiche della madre e, soprattutto, da un certo Floyd, un uomo nero di 37 anni che viveva in subaffitto da loro e che ha segnato clamorosamente il suo gusto e la sua cultura.

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Un personaggio paterno. Che preferiva Don Knotts a Charles Chaplin (quanto piace a Tarantino dirci queste cose…), che riabilitava da subito i caratteristi neri dei film dei bianchi, come Willie Best o Stepin Fetchit (“facevano quello che dovevano fare”), che adorava “Il padrino”, “Patton” e “Cluny Brown” di Ernest Lubitsch, ma soprattutto che sognava un western con eroe nero di nome Billy Spencer. Molto simile al protagonista del suo “Django Unchained”.

 

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Credo che più delle considerazioni di Tarantino su Steve McQueen e su “Bullitt” o sul fatto che aver trasformato in bianco il personaggio nero del pappone di “Taxi Driver” di Scorsese abbia tradito la sceneggiatura di Paul Schrader, o sulle varie vite del personaggio di Parker di Donald Westlake nel cinema americano, la vera scoperta del libro e il suo fascino più profondo stia tutto in quest’apertura del regista sulla sua vita. La ricostruzione di come fu impressionato da una massa di 850 spettatori, tutti neri, a parte lui, e tutti maschi urlanti a parte forse una cinquantina di ragazze, nell’assistere alla prima di “Black Gunn” con Jim Brown in piena blaxplotation. Un’esplosione di tossicità maschile, di orgoglio nero che, evidentemente, non possiamo capire se non l’abbiamo vissuta e che, a noi italiani, ci è veramente lontana.

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Anche se possiamo vantare le sale piene fino all’inverosimile dei mitologici e, soprattutto dei nostri grandi spaghetti western. Ma non è la stessa cosa. Perché Tarantino costruisce tutto il suo cinema partendo proprio da queste esperienze di vita degli anni ’70. Che sono poi gli anni che vedono il nostro cinema-bis più adorato ormai ridotto a poca cosa dopo la grande esperienza dei generi negli anni ’60. Mettiamoci anche i double-bill, le proiezioni doppie che lo hanno impressionato, come quella degli horror “The Abominable Dr. Phibes” e “The House That Dripped Blood”.

 

Le battute che lo hanno segnato dalle sue visioni di film col mitico Floyd, come quando vanno a vedere “Eaten Alive” di Tobe Hooper e il personaggio interpretato da Robert Englund si presenta con uno scorrettissimo “My name is Buck and I’m here to fuck” (“Mi chiamo Buck e sono qui per scoparti”). E’ sempre Floyd che lo forma come cultore del rock nero anni ’50, che Tarantino preferisce a qualsiasi musica dei suoi anni. E lo forma a questa continua voglia di cambiare il punto di vista. Per stupire, credo, i nemici storici.

 

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 Cioè i più vecchi baby boomer-critics, i critici nati nei primi anni ’50 che si sono formati con la Nouvelle Vague, con Truffaut, che Tarantino detesta come fosse un mieloso Pupi Avati, con le epopee di John Ford, che Tarantino sistema fra i mostri del razzismo alla Griffith. Ma è poi costretto a accettare l’importanza di “Sentieri selvaggi” di Ford nella ri-scrittura di tutto il cinema americano degli anni ’70, è la tesi del suo saggio su “Hardcore” di Paul Schrader. Devo dire che se ne può parlare per ore, giorni, mesi, che il libro è molto intelligente e molto divertente.

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Che, ahimé, sono tra i pochissimi che hanno visto tutti i film che Tarantino cita (e li ho visti tutti quando andavano visti) e lo può seguire nelle sue teorie spesso con le stesse idee. Anche se non sono sempre d’accordo. No. “Taxi Driver” non sarebbe stato un film migliore diretto da Brian De Palma o da Robert Mulligan, che pure adoro. “Funhouse” di Tobe Hooper era un capolavoro da quando lo andai a vedere, cioè da subito. No. “Nightmare Alley” di Edmund Goulding non c’entra nulla con “Riso amaro”. Sì.

 

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Forse “The Outfit” di John Flynn con Robert Duvall e Joe Don Baker è il miglior film tratto da Stark/Westlake, ma non mi toccare “Point Black” di John Boorman e non mi toccare Lee Marvin. Cazzo. Sul personaggio di Neil McCauley di De Niro in “Heat” di Michael Mann si può discutere, però. E, per quanto preferisca Buster Keaton a Charles Chaplin, non credo che Don Knotts sia superiore. E, sì, forse se Max Julien fosse stato bianco, dopo “The Mack” avrebbe potuto diventare lo sceneggiatore più pagato di Hollywood. Ma lo sapeva Quentin che Max Julien abitò un anno a Roma e scrisse qui “The Mack”?

 

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