Piero Negri per la Stampa
L' eccezione è la norma, nella vita di Ezio Bosso. Non solo, non tanto, per la popolarità che in 13 minuti di televisione si è guadagnato a Sanremo. Non solo per la malattia neurodegenerativa che l' ha colpito, di cui dopo qualche secondo trascorso con lui ci si dimentica naturalmente.
La sua storia è un' eccezione: è un musicista colto capace di parlare a tutti (e chi è stato a uno dei suoi tanti concerti in giro per l' Italia - tutti sold out - lo sa bene) e di portare in hit parade un album complesso e per nulla pop come The 12th Room .
Ora il contratto con la Sony Music e l' uscita di ...and the things that remain , che raccoglie il suo meglio, o qualcosa del genere, dal 2004 a oggi.
«Il concetto di antologia non mi entusiasma. Ho accettato di farla perché ci ho messo tre inediti e perché con la Sony ho firmato un accordo mondiale da musicista, come si usava un tempo: significa che in futuro potrebbero arrivare album con composizioni non mie, o non suonate da me».
È possibile distaccarsi così dalle proprie composizioni?
«Non solo è possibile, è necessario: detesto il concetto di musica "mia". Al massimo, è scritta da me. Noi siamo solo un tramite, ce lo dimentichiamo spesso per metterci la tuta da Superman, per aver ragione. Vivo di vibrazioni empatiche, la ragione mi fa paura».
Con lei non c' è mai nulla di scontato: l' album si intitola ...and the things that remain , ma non contiene la composizione che si chiama così.
«Per un certo periodo a tutte le persone che incontravo chiedevo quali erano per loro "le cose che rimanevano".
Qualcuno pensava a ciò che rimarrà di noi dopo la morte, ed è un pensiero che ho anch' io, con il tempo che mi resta e i figli che non ho, ma molti riflettevano su ciò che gli era stato trasmesso da chi non c' è più. Ho scritto un trio con quel titolo, nell' album non c' è ma il concetto sì: di questo mi occupo, della musica che rimane».
È un musicista classico, post-minimalista, divenuto popolare a Sanremo senza mai diventare pop. Strano, no?
«Per chi viene ai concerti però non ci sono equivoci. Questo successo pop, che è solo italiano, rafforza in me solo il desiderio di fare un passo indietro. A me oggi interessa la potenzialità di divulgare bellezza. Quando un ragazzo mi dice, sono stato al concerto di Mario Brunello che faceva le suite di Bach perché l' hai detto durante un concerto, per me è il massimo. Nella musica io credo: la musica non è bella, è importante, è vita. La grande musica fa sì che esista la musica che scrivo io e fa sì che esista io, che viva e viva meglio».
Ha conosciuto anche i famosi aspetti negativi del successo?
«Non è facile essere sulla bocca di tutti, né avere tante persone che vogliono fare una foto con me, quando io le foto le ho sempre detestate, fin da piccolo. C' è affetto, però anche fatica: ero abituato a rispondere a tutti, ora non ce la faccio e alcuni si arrabbiano, mi dicono che sono cattivo, e ci rimango male. Lotto per affermare che sono una persona, non un personaggio».
Ha detto molti no?
«Sì. Mi hanno perfino chiesto di commentare gli Europei. Ma io di calcio non so niente, seguo più il rugby. Il 23 dicembre, però, sono su Sky Arte con la registrazione del concerto qui a Gualtieri, la mia seconda casa. Avevo detto: tornerò in tv solo se qualcuno trasmette in prima serata un concerto della musica a cui appartengo. Mantengo la promessa».
È l' uomo della prime volte: l' hanno chiamata a dirigere alla Fenice, a Venezia, e ha aperto tutte le prove al pubblico.
«Nessuno l' aveva mai fatto: è stata una bellissima esperienza, con solo aspetti positivi. Tra i tanti, anche quello di tener vivo il teatro tutto il giorno».
A Venezia ha diretto Mendelssohn, Beethoven e Bosso: cos' altro le piacerebbe affrontare?
«Il sogno è che un' orchestra mi dica: facciamo tutto Beethoven.
Così finalmente dirigo il mio papà musicale. Se mi chiede cosa mi piacerebbe dirigere, torno all' infanzia: Beethoven, Má vlast di Smetana e Les préludes di Liszt. A 5 anni, ascoltandoli di nascosto, sognai di dirigere».
Quindi nasce direttore?
«Volevo fare il direttore, ma allora, quando arrivavi da una famiglia povera, ti facevano capire che non potevi permettertelo. Ti dicevano: suona il contrabbasso, almeno trovi un lavoro sicuro. La direzione te la devi guadagnare, magari incontrando, come è successo a me, maestri che ti incoraggiano».
Si sente più che altro direttore?
«Lo dico sempre, sono un direttore che compone e che all' occorrenza suona il pianoforte. La mia natura è quella di concertare gli altri. Però il piano mi ha aiutato, mi ha permesso di fare musica senza stancarmi troppo. Tre anni fa non sarei mai riuscito a dirigere, poco tempo prima non riuscivo neanche a suonare il pianoforte: tentai un concerto di tre quarti d' ora e svenni sulla tastiera».
Cosa è cambiato in lei?
«Il mio unico segreto è la disciplina, è la musica che me l' ha insegnato. Con la musica non "esprimi te stesso", esprimi l' arte, le dai cuore. Ma è essenzialmente disciplina. Lo studio quotidiano che faccio da 40 anni non è mai cambiato: è quello che mi ha permesso di vivere meglio la mia condizione».