Carlo Bonini per www.repubblica.it
JESSE ARMSTRONG CON IL CAST DI SUCCESSION - EMMY 2022
Perdonerete l’enfasi, figlia per altro di una dipendenza conclamata, ma con l’ennesimo trionfo agli Emmy, Succession conferma che la dimensione epica e per questo globale del racconto televisivo seriale ha raggiunto con la saga della famiglia Roy la forma compiuta di archetipo della nostra contemporaneità.
Nel mirabile arco narrativo che da tre stagioni ci accompagna nelle traiettorie dell’editore patriarca Logan Roy, padre e padrone di una genia cannibale (i figli Kendall, Shiv, Roman, Connor) che lotta per succedergli e che lui, dio Urano, non riesce a non accecare fino all’annichilimento di ogni barlume di umanità, è infatti la rappresentazione esatta del Potere e delle sue maschere nel tempo della comunicazione globale. In tutte le sue declinazioni. Nella sua proiezione pubblica e in quella familiare. Nella sua dimensione sociopatica, cinicamente autoreferenziale, e persino in quella erotica. Esattamente come nello svelamento della sua intrinseca debolezza.
Accade insomma che pur ispirato alla figura del tycoon Rupert Murdoch, e ai destini di un impero multimediale chiamato alla sfida epocale della transizione al digitale, Logan e la sua famiglia si trasformino in figure senza tempo pur ben piantate nel nostro di tempo.
La formidabile scrittura di Jesse Armstrong, produttore e giornalista britannico, e la altrettanto formidabile interpretazione di un cast che ha il suo sole nell’assoluto Brian Cox (Logan Roy), settantaseienne attore scozzese figlio della Royal Shakespeare Company, riescono infatti ad avvolgerci e riconciliarci con le radici profonde della nostra cultura occidentale. Il mito e la tragedia greca, il teatro shakespeariano e i suoi eterni temi: il rapporto padri-figli, l’amore irrisolto e non corrisposto, la gelosia, l’invidia, il desiderio irrefrenabile di autoaffermazione.
La naturalezza con cui si viene travolti e ci si abbandona a questa tempesta di emozioni e sentimenti primari è la cifra di Succession, del suo linguaggio per parole e immagini. Come se con i Roy, famiglia dal patrimonio e stile di vita inarrivabili, ciascuno scoprisse in fondo di avere una qualche confidenza, consuetudine. Non fosse altro perché ruminano la nostra stessa e atavica materia esistenziale. Merito di una macchina narrativa costruita come un prisma che non deforma o banalizza la realtà, ma la scompone.
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Evitando di cadere in cliché, anche solo visivi (che sollievo vedere finalmente rappresentate la nostra Toscana e il nostro lago di Como, due dei set della terza stagione, senza il posticcio pastello dello sguardo d’oltreoceano) e restituendo il centro della scena alla dimensione teatrale della parola e alla sua capacità di riempire di senso il contesto. Più o meno una benedizione.